Game Changer

Game Changer

La locuzione inglese “game changer” si riferisce a un fatto o un individuo che possano cambiare l’esito di una vicenda, oppure—nell’ipotesi più letterale—le sorti di un incontro sportivo.

La traduzione corretta dipende tutta dal contesto è può essere “carta vincente”, “svolta”, “colpo di scena”, ecc. Ma il senso è chiaro.

In politica, un chiaro esempio di game changer è avvenuto in America pochi giorni fa.

Il 18 Settembre è scomparsa Ruth Bader Ginsburg, giudice ottantasettenne della Corte Suprema. La Ginsburg era malata da tempo ma grazie a una forza di volontà inarrestabile aveva voluto lavorare fino all’ultimo.

Già dai tempi della presidenza Obama era stata ventilata l’ipotesi che lei si ritirasse, dando al Presidente l’opportunità di sostituirla con qualcuno che, come lei, fosse dichiaratamente di sinistra, ma lei si era sempre rifiutata di lasciare.

Per il partito di Joe Biden la scomparsa della Ginsburg avviene nel peggiore dei momenti, a 40 giorni dalle elezioni presidenziali.

Per evitare una sonora sconfitta alle urne, il partito Democrat si era già mobilitato attivando una serie di devastanti azioni anti-Trump, che però non hanno fatto altro che motivare l’elettorato Repubblicano ad andare alle urne in massa.

Più subdola ma non meno insidiosa è stata invece la loro manovra, attraverso giudici e governatori di parte, per legalizzare in più stati il voto via posta, anche in data successiva alle elezioni.

Il voto postale differito

Oltre ad essere una misura sospetta dal punto di vista costituzionale, il suo effetto ultimo sarebbe quello di poter rovesciare l’esito del voto tradizionale—che molti ritengono favorisca Trump—nelle due o tre settimane successive al voto, con una serie di operazioni illegali che configurano la fattispecie del broglio elettorale.

Fino al 18 Settembre, la strategia difensiva dei Repubblicani era quella di portare il caso alla Corte Suprema se il voto postale avesse favorito in maniera sospetta i Democrat. E fino a quella data, il partito di Trump poteva solo contare su una maggioranza di 5 a 4 nel supremo tribunale del paese. Maggioranza sì, ma ancora suscettibile di riservare brutte sorprese—insomma non un risultato scontato.

Ora però Trump ha l’opportunità di stravolgere gli equilibri nella Corte Suprema nominando e facendo approvare in extremis un giudice di comprovata fede conservatrice, realizzando un clamoroso 6 a 3.

La scomparsa della Ginsburg, per quanto già paventata, ha sconvolto i Dem. La loro strategia ora rischia di saltare.
Qualunque ribaltone post-elettorale ottenuto tramite il sospetto voto postale finirebbe davanti a una Corte Suprema poco disposta a tollerare i giochi loschi del partito di Biden.

Adesso i senatori Repubblicani si stanno mobilitando per accelerare il processo di conferma del nuovo giudice (quasi certamente una donna), che Trump nominerà in questi giorni. Non è ancora un fatto compiuto, visto che un paio di senatori che formalmente appartengono al partito di Trump hanno già storto il naso.

Resta al Leader della Maggioranza in Senato, il Repubblicano Mitch McConnell, il compito di mettere insieme una maggioranza che porti alla conferma entro il 3 Novembre, data delle elezioni. I tempi sono strettissimi ma ci sono precedenti storici incoraggianti.

L’opzione nucleare

Aiuta anche il fatto che nel 2013—durante la presidenza Obama—il senatore Dem Harry Reid avesse deciso di superare l’ostruzionismo posto dai Repubblicani alle nomine di giudici fedeli a Obama introducendo la cosiddetta “opzione nucleare”, per cui, invece di 60 voti su 100, sarebbe bastata la semplice maggioranza dei senatori (51)  per sancire la conferma di un giudice.

Ai tempi, i Democrat gioirono per questo colpo di mano. Oggi, invece, data la risicata maggioranza Repubblicana in Senato (53 a 47), essi si pentono di aver mai aperto la porta a questo altro game changer.

Ecco quindi chiarita l’inaspettata svolta che di colpo favorisce Trump. Ora The Donald è in grado di contrastare la collaudata macchina fraudolenta dei Dem—che si ritrovano con un duo di candidati (Biden e Harris) di bassa lega—con una Corte Suprema a prova di defezioni.

Ma non solo. Una tale composizione della Corte mette le istituzioni americane al riparo dai progetti Dem volti ad annientare l’opposizione Repubblicana e a garantire future amministrazioni esclusivamente di sinistra.

Già da tempo il partito di Joe Biden parla chiaramente di far diventare stati il Distretto di Columbia (dove sorge Washington) e Puerto Rico, contando di trasformarli in roccaforti Dem.

Inoltre, sotto la presidenza Biden, il numero dei giudici della Corte Suprema, che oggi sono 9, verrebbe aumentato con l’ingresso di ulteriori magistrati dal pedigree “progressista” fino a raggiungere una maggioranza schiacciante.

E infine, e questo è l’aspetto più devastante, si aprirebbero le frontiere alla libera immigrazione e si darebbe il voto agli immigrati clandestini per sbarrare ai Repubblicani l’accesso al potere praticamente in eterno.

Le prossime settimane ci diranno come Donald Trump sta giocando la carta vincente che ha in mano da 48 ore.

 

The Jig is Up

The Jig is Up

Back in March 2020 I posted my reflections on the dilemma the Democrats faced when choosing their presidential nominee. They notoriously ended up nominating Joe Biden.

Today, six months on, their current dilemma has to do with their candidate’s positioning—and much more.

Joe Biden is a fence-sitting political hack whom many would place left of center, but when his nomination was imminent, he took radical left positions to steal the wind from Bernie Sanders’ sails. In addition, the choice of his running mate, Kamala Harris, was a nod to a growing far-left element in the Dem base.

Now that the election is just 7 weeks away—and after widespread riots in several Dem-run cities—the new marching orders spell “don’t scare off moderate Democrats”, many of whom might be attracted to Donald Trump’s law-and-order stance.

This has forced the Biden/Harris campaign to temporarily sideline Kamala Harris because of her far-left rhetoric—as well as her likability deficit. (Her presidential campaign was an unmitigated disaster, as she ended it in December 2019 with her support lagging at 3.3% and her finances over $1-million in the red.)

In the past few days we have seen Joe Biden’s cringeworthily flip-flopping on Covid-19, urban riots, defunding the police, NAFTA vs. USCMA, foreign wars, and desperately trying to rebrand himself and his campaign more in line with the opinion polls.

The Dems’ woes do not end there, though.

Biden is a train wreck of a candidate. His public appearances are few and disastrous, his gaffes virtually non-stop. It is largely evident that Biden’s dementia is progressing at a frightening rate.

Biden never was presidential material, but his cognitive decline now makes him absolutely unfit to serve.

To quote Donald Trump—who’s never one to mince words—Joe is a “flashlight with a dying battery.”

Joe is a flashlight with a dying battery.

The jig is up.

The not-so-subtle scheme to foist President Kamala Harris on the USA by using Joe Biden as a Trojan horse is out in the open. This scheme called for the Biden/Harris ticket to win the presidency, with Joe a mere figurehead in an administration run by a radical-left Democrat party. Over time, a gradually fading Biden would usher in his VP (under Section 3 of the 25th Amendment) and America would wake up with a Jamaican-Indian-American woman President whose own presidential run was an abysmal failure.

But Biden’s snowballing decline has caught the Dems by surprise. Calls are being heard for him to forgo the presidential debates lest he be ridiculed and trounced by Donald Trump—and this notwithstanding the fact that the scheduled three debates will be moderated by as many never-Trumper journos.

At this juncture, the Biden runaway train is gathering speed and the Dems are stuck on board.
Prevarication, deflections and lies can hardly hide the stark reality from the voters.

Even the last-minute “bombshell” revelations about Trump by a partisan mainstream media and the continuing attacks from the House can’t paper over the rapidly expanding cracks in the Biden façade.

The Dems are well aware of this while they lay the groundwork for their Doomsday Strategy. If Trump wins the election, they’ll use the mail-in ballots to overturn its outcome and/or unleash civil unrest throughout the country.

Yes, you got that right. It comes down to electoral fraud and urban terrorism.

 

 

 

Ma quanto è stupida l’Intelligenza Artificiale?

Ma quanto è stupida l’Intelligenza Artificiale?

Come tanti milioni di utenti di Google, ricevo anche io una carrellata di video “selezionati” apposta per me sulla base dei miei dati di navigazione pregressi, sui Like che ho dato a determinati video e—vorrei sperare—anche e specialmente sui canali che ho specificamente dichiarato di non gradire.

 

 

In particolare, non sopporto i video dedicati a:

  • Videogiochi
  • Pesca con la lenza o d’altura
  • Deliziosi micetti
  • Mammiferi umanizzati (il cane che canta, la volpe che fischia ecc.)
  • Uccelli parlanti (pappagalli, parrocchetti, ecc.)
  • Ferrovie in miniatura
  • Gossip su celebrità e famiglie reali assortite
  • Veicoli radiocomandati
  • Cartoni animati
  • Trattori, ruspe, mietitrebbia e altri affascinanti mezzi da lavoro
  • Trainspotting, planespotting
  • Musica rilassante, white noise
  • Video in lingue che non parlerò mai, come ungherese, cinese, russo, tailandese, giapponese, cinese, ecc.

Non dimentichiamo che Google sa dove vivo, dove vado a fare la spesa o in ferie, ha un quadro quasi perfetto delle mie conoscenze linguistiche, ma specialmente le basterebbe tener conto di quei generi che non mi interessano affatto per non ripropormeli di continuo..

E invece no, continua a scodellarmi video in hindi su come riparare trattori o filmati di gente che registra i mugolii del suo husky e poi sostiene che corrispondano a parole in russo o in inglese.

A distanza di tempo, Google soffre di demenza senile come Joe Biden e mi rifila video che ho già visto anni fa e ho chiesto di non rivedere.

Mi domando veramente se gli algoritmi glieli fa un cantinaro a Bangalore in cambio di quattro soldi.

E che dire di Amazon, il gigante dell’e-commerce?

Faccio una ricerca online (facciamo finta per comodità che io stia cercando una bibita analcolica in lattine) e alla fine compro una cassetta di 24 lattine di Coca Cola.

Da quel momento parte una serie di mail che esordiscono così:

Ciao XYZ,

Sulla base della tua attività recente, pensiamo che questo ti possa interessare.

Segue l’immagine di una cassetta di 24 lattine di Pepsi Cola con tanto di prezzo e previsioni di consegna.

Ma che gli dice la testa agli onnipotenti gestori delle nostre menti e dei nostri portafogli?

I vassalli di Pechino

I vassalli di Pechino

Qualche giorno fa ho espresso la mia profonda costernazione per il giro di vite repressivo che ha di fatto soppresso l’autonomia di Hong Kong, oltre a dichiarare fallito l’esperimento “one country, two systems”.

i 50 anni di “elevata autonomia” promessi dalla Cina alla ex-colonia britannica al momento della sua cessione nel 1997 non sono durati nemmeno la metà di quanto promesso.

Il primo Luglio scorso, che segnava appunto il 23° anno di questa travagliata gestione cinese di Hong Kong, ha visto un altro fatto vergognoso.

Cuba, una nazione fallita sempre al servizio del padrone di turno, ha osannato l’intervento legislativo cinese che ha praticamente spazzato via il dissenso a Hong Kong presentando una risoluzione a supporto di Pechino presso il Consiglio per i Diritti Umani dell’ONU.

Con L’Avana hanno votato a favore altri 52 stati, che meritano di essere qui elencati: Cina, Antigua e Barbuda, Bahrein, Bielorussia, Burundi, Cambogia, Camerun, Repubblica Centroafricana, Comore, Congo-Brazzaville, Gibuti, Dominica, Egitto Guinea Equatoriale, Eritrea, Gabon, Gambia, Guinea, Guinea-Bissau, Iran, Iraq, Kuwait, Laos, Libano, Lesotho, Mauritania, Marocco, Mozambico, Myanmar, Nepal, Nicaragua, Niger, Corea del Nord, Oman, Pakistan, Palestina, Papua New Guinea, Arabia Saudita, Sierra Leone, Somalia, Sud Sudan, Sri Lanka, Sudan, Suriname, Siria, Tajikistan, Togo, Emirati Arabi Uniti, Venezuela, Yemen, Zambia e Zimbabwe.

La maggior parte di queste nazioni, note per violare sistematicamente i diritti umani, sono anche aderenti alla “Nuova Via della Seta”, l’ultima trovata di Pechino per incastrare finanziariamente paesi in via di sviluppo e fagocitarli.

Contemporaneamente, una mozione di condanna della Cina per le violazioni dei diritti umani a Hong Kong e nello Xinjang è stata presentata dalla Gran Bretagna con l’adesione di Australia, Austria, Belgio, Belize, Canada, Danimarca, Estonia, Finlandia, Francia, Islanda, Irlanda, Germania, Giappone, Lettonia, Liechtenstein, Lituania, Lussemburgo, Isole Marshall, Olanda, Nuova Zelanda, Norvegia, Palau, Slovacchia, Slovenia, Svezia e Svizzera e Regno.

Dov’era l’Italia?

L’Italia di Di Maio si è astenuta. Non è un segreto che la fede grillina imponga deferenza nei confronti dei cinesi, ma quanto è appena successo dimostra la totale mancanza di decenza di questo governo.

Osserva Bethany Allen-Ebrahimian di Axios: “Pechino è riuscita a far leva sul Consiglio per i Diritti Umani dell’ONU perché avallasse proprio quelle attività che era stato creato per contrastare.”

Per chiudere, è proprio il caso di citare la celebre frase attribuita a Edmund Burke:

Perché il male trionfi è sufficiente che i buoni rinuncino ad agire.*

  • Quando Burke si riferiva ai buoni, non considerava i buoni a niente.
Farewell to Hong Kong

Farewell to Hong Kong

I reminisce about my time in Hong Kong with the heartache you associate with losing a friend.

After years of frequent stays, my trips to this bewitching place came to an end with my retirement.

If that were not reason enough for a hefty dose of melancholy, the current state of affairs in HK warrants immense sadness.

In 1997, when the UK handed over its former colony to China, many feared this would be the end of Hong Kong as they knew and loved it. Now, as the 23rd anniversary of the island’s return to Chinese rule approaches, it’s become all too obvious that Beijing has lastly dropped its tolerant mask and the one-country, two-systems sham has been finally exposed for what it is.

Back before the handover, Beijing had pledged to give Hong Kong 50 years of a “high-degree of autonomy”, but clearly never meant to deliver on its promise.

Indeed, July 1 in Hong Kong has long been associated with protests against the heavy hand of Beijing since that fateful raising of the CCP flag at midnight on June 30, 1997.

This time, however, the Hong Kongers’ worst fears have become reality and a Tiananmen-style crackdown on the inevitable demonstrations looks frighteningly real.

I may never return to Hong Kong—and if I ever do, I’m not sure how different it will be.

My heart goes out to its people on this first of July, 2020.

 

Il bianco che si odia

Il bianco che si odia

Dopo la Unilever, anche L’Oréal si è affrettata a rinominare tutti I suoi prodotti che nella loro descrizione contengono la parola “whitening”, cioè sbiancante.

Questo, secondo loro, servirebbe a testimoniare la presa di distanza delle aziende dal razzismo e dai fenomeni di discriminazione.

In realtà quanto sopra non è che l’ennesima dimostrazione dell’ipocrisia dei grandi marchi, che mirano solo a non essere gli ultimi nella corsa al “virtue signaling”, che è il propagare un’immagine virtuosa e aliena da qualunque forma di discriminazione. Quanto sopra, beninteso, solo a parole e sui social media.

Ma così facendo queste aziende dimostrano solo la loro profonda superficialità e idiozia. Che cosa c’è di razzista nel desiderare una dentatura bianca e splendente o una pelle più chiara?

L’idea di fondo è quella di mostrarsi più socialmente “impegnati” della concorrenza. Se non riesci a far crescere il valore del marchio per la qualità del prodotto, devi scimmiottare l’ideologia progressista, non importa quanto stupida.

Ma qualcuno ha chiesto a un focus group di non bianchi se un dentifricio che promette denti candidi li offende davvero?

E cosa fare con i detersivi? Anche qui, seguendo il ragionamento di cui sopra, il rischio è grosso.

Vogliamo bandire le lenzuola o le T-shirt bianche a favore di biancheria nelle tonalità di marrone?

Ma non rischiamo così di offendere la sensibilità di coloro la cui pelle non è marrone? Siamo poi sicuri che africani, indiani e cinesi detestino il colore bianco? Non è per caso un po’ troppo semplicistico?

A mio avviso, questa corsa alla auto-demonizzazione della razza bianca e la frenesia con cui una minoranza di idioti foraggiati da interessi politico-economici si è votata alla distruzione delle statue e dei monumenti del passato e di tutto ciò che è “bianco” è profondamente—sì, è il momento di dirlo—razzista. Perché dico razzista? Perché questo approccio è un insulto nei confronti delle alre razze.

Sono veramente così stupidi i non bianchi da sentirsi emancipati e appagati se si tirano giù le statue dei navigatori europei del passato o se il dentifricio non sbianca più i denti? Non credo proprio.

Non a caso, due terzi dei partecipanti alle manifestazioni di protesta e all’abbattimento delle statue in USA erano bianchi, come sono sicuramente quei dirigenti di Unilever e L’Oréal che hanno fatto la loro patetica pensata. Bianchi che odiano sé stessi e che credono, così facendo, di essere utili a qualcuno.