Cogliere l’attimo a Hong Kong

Cogliere l’attimo a Hong Kong

 

Chiamatela Hong Kong, Xianggang o HK, questa minuscola porzione di Repubblica Popolare Cinese  (poco più di 1000 km quadrati) è il laboratorio politico e finanziario nel quale il Paese di Mezzo conduce gli esperimenti per i suoi assetti futuri.

Nonostante la sua grande vocazione commerciale, industriale e finanziaria, Hong Kong rimane un luogo indimenticabile da visitare, anche se il motivo principale che vi ci porta sono gli affari. Non mancate di coglierne i mutevoli umori nel corso della giornata, per quanto la vostra agenda possa essere fitta di appuntamenti.

La mattina lavorativa di Hong Kong comincia presto e le strade che portano all’isola dai Nuovi Territori e dal confine cinese si affollano di autobus, auto private e taxi alle prime luci dell’alba. Le 7 linee della moderna rete metropolitana, la MTR, iniziano a operare attorno alle 6 e costituiscono il mezzo di trasporto più rapido, economico ed efficiente di Hong Kong.

L’umore del mattino è adrenalinico. Tutti corrono in ogni direzione con l’occhio all’orologio e gli immancabili auricolari in posizione. È il momento di andare in ufficio, correre in aeroporto, prendere il treno per Shenzhen, consegnare pacchi, ritirare pacchi, scaricare il camion, caricare il furgone, rifornire i ristoranti, scavare fosse, posare cavi, salire sul battello, scendere dall’aliscafo. A Hong Kong, gli unici che si possono prendere una pausa sono i turisti.

Questa Manhattan asiatica è in continuo, frenetico movimento, ma se New York è pittoresca e piena di contrasti, la tavolozza dei colori e l’assortimento degli odori di Hong Kong sono ancora più variegati.

Le ore del mattino scorrono veloci nelle torri di cristallo di Wanchai o nelle fabbriche verticali dei Nuovi Territori, edifici industriali che si sviluppano in altezza perché i terreni si pagano a peso d’oro. Che sulla città incomba un cielo basso di nuvole o che splenda il sole, l’umidità è sempre altissima e migliaia di condizionatori lavorano in fuorigiri per combatterla. Passi davanti a un negozio e ti investe una ventata di aria fredda, in metropolitana le bocchette sul soffitto dei vagoni soffiano spietate verso il basso investendo un pubblico impassibile che legge giornali o ascolta musica. Dai magazzini e dagli edifici industriali arrivano folate di aria rancida che sanno di olio minerale, di umidità e di circuiti elettrici surriscaldati.

È arrivata l’ora del pranzo. Migliaia di persone si riversano in strada dirette a bar, coffee shop e ristoranti. Molte migliaia ancora prendono le bacchette, aprono il contenitore con il pranzo che hanno portato da casa e si cercano un angolo in ufficio o in fabbrica dove poter mangiare tranquilli. I turisti, che hanno macinato chilometri a piedi, si lasciano crollare nella poltrona bisunta di uno dei mille Starbucks.

Le vecchie, splendide carrette della Star Ferry continuano a fare la spola tra Kowloon e l’isola di Hong Kong. Chi è seduto al ristorante dell’Ocean Center, dove attraccano le navi da crociera, le vede attraversare senza sosta il breve tratto di mare del Victoria Harbour dirette a Central o Wanchai come palline da ping-pong. Quanti sono i traghetti della Star Ferry, ognuno contraddistinto dal nome di una stella? Cinquanta, cento? No, sono solo dodici ma non si fermano mai.

Il pomeriggio inoltrato regala umori e colori speciali a Hong Kong. Se avete finito una frenetica giornata di lavoro ed emergete dalla stazione metro di Tsim Sha Tsui o in quella di Central, vi accolgono i riflessi del sole che rimbalzano dalle vetrate tinte dei grattacieli e l’aria calda densa di odori. Qualche nuvoletta sul Victoria Peak dell’isola si tinge di rosa e una vaga foschia inizia ad avvolgere i grattacieli-alveare alle spalle del porto container di West Kowloon. Sullo skyline dell’isola si accendono le prime insegne pubblicitarie, mentre nel cuore del distretto turistico della penisola, Tsim Sha Tsui, le luci non si sono mai spente: elettronica, abiti su misura, visti per la Cina, ristoranti, uffici cambio, agenzie di viaggi, occhiali. C’è di tutto per tutti.

Lungo la Nathan Road e all’imbarco degli Star Ferry sul lato Kowloon, orde di procacciatori ti inseguono per proporti vestiti su misura. Oggi il sarto ti fa scegliere la stoffa, domani ti consegnano il vestito in albergo.

Servono degli occhiali da vista. No problem, sir. Esame della vista ora, occhiali pronti domani mattina.

In ogni mio viaggio a Hong Kong ho sempre portato con me almeno una macchina fotografica. La reflex per le foto “serie” e una piccola punta-e-scatta da tenere nella valigetta durante il giorno per cogliere qualche istantanea tra una riunione e l’altra.

Qui i negozi di fotografia sono meta d’obbligo per l’appassionato. C’è chi raccomanda quelli di Stanley Street sull’isola, chi è invece convinto di fare i migliori acquisti a Kowloon. Io per non sbagliare li ho girati tutti, da Central  fino a Mong Kok. Alla fine ho sempre comprato da Tin Cheung in Carnarvon Street, proprio nel cuore di Kowloon, a due passi dai principali alberghi della penisola. I prezzi sono analoghi a quelli USA, quindi estremamente vantaggiosi rispetto all’Italia.

Armato dell’ultimo obiettivo Canon mi sono poi affrettato a raggiungere l’estremità meridionale di Kowloon e la passeggiata a mare del Cultural Centre per scattare l’ennesima foto dell’isola al tramonto, litigandomi la veduta con centinaia di turisti, cinesi e non. Nel corso degli anni non so quante foto avrò scattato con la stessa inquadratura, ma non ce ne sono due uguali. Un po’ per via dei continui cambi di umore di questa metropoli, ma specialmente per le sue continue mutazioni. Ogni anno qualcosa cambia nel suo skyline, un nuovo grattacielo prende forma mentre uno “vecchio” viene giù.

È dalla fine dell’800 che Hong Kong non cessa di trasformarsi e di sorprendere; forse l’unica battuta d’arresto ci fu durante i  4 anni di occupazione giapponese dal 1941 al 1945.

Il fascino che questa metropoli esercita  e la profonda lezione che ci trasmette si possono descrivere con una sola parola: vitalità.

Gli antipodi nel servizio ai clienti

Gli antipodi nel servizio ai clienti

Caso N.1

Qualche tempo fa ho inviato dei documenti da Milano a Udine tramite Posta1, un servizio che, per Euro 2,80, “consente di spedire velocemente lettere in tutta Italia, con la possibilità di verificare l’esito di consegna dei tuoi invii”, almeno così dicono le Poste. L’addetto dell’ufficio postale in Stazione Centrale a Milano mi assicurava che il plico sarebbe arrivato “domani o al massimo dopodomani”.
In realtà ci ha messo 7 giorni e dal sito delle Poste risultava impossibile tracciare lo stato della consegna.

Ho utilizzato il modulo di contatto presente sul sito e ho segnalato il disservizio chiedendo spiegazioni. Tre mesi dopo—sì, tre mesi—le Poste mi rispondono quanto segue:

Gentile Cliente,
con riferimento alla Sua segnalazione, relativa al mancato/tardato recapito dell’invio di Posta 1, n. 2IUP0006961352, desideriamo fornirle gli opportuni chiarimenti.A riguardo, La informiamo che per questa tipologia di invio, la funzionalità di rendicontazione ha natura meramente informativa sull’esito di consegna e non permette di determinare in modo certo, ovvero sulla base di riscontri obiettivi, i dati relativi alla spedizione, destinazione e recapito dell’invio.
Per questo motivo la Carta del Servizio Postale Universale non prevede indennizzi: precisamente stabilisce che “in conformità con la legislazione nazionale vigente e con la Convenzione Postale Universale ratificata nell’ordinamento italiano, rimborsi, indennizzi o ristori sono previsti per i soli servizi per i quali sia possibile determinare in modo certo, ovvero sulla base di riscontri obiettivi, i dati relativi alla spedizione, destinazione e consegna.
Negli altri casi, l’assenza dei rimborsi/indennizzi/ristori è giustificata da criteri di ragionevolezza. Abbiamo, comunque, provveduto a sensibilizzare il personale a porre la massima attenzione nell’espletamento del servizio.

Notate il linguaggio prettamente burocratico e l’assenza di qualunque formula del tipo: “siamo spiacenti.”

Inoltre, nel mio reclamo non avevo chiesto alcun rimborso, ma qui si tratta probabilmente di un “copia e incolla” fatto dall’anonimo impiegato postale, che ha attinto a una risposta data ad altri in passato.

Per chiudere, la frase “abbiamo (…) provveduto a sensibilizzare il personale a porre la massima attenzione nell’espletamento del servizio” mi ha fatto ridere fino alle lacrime. Vi immaginate la scena?
In che film di fantascienza vedete un responsabile delle Poste sensibilizzare gli impiegati a fornire un servizio migliore?

Caso N.2

Qualche giorno fa, un oggetto ordinato su Amazon con consegna assicurata per il giorno X non è stato consegnato. Il sito del corriere B. incaricato di recapitare il pacco lo dava “in consegna” già dalle 8 del mattino. Poi, evidentemente, il conducente del furgone ha deciso di andarsene a casa e, alle 17:59, la consegna veniva rimandata per motivi non spiegati.
Al mio reclamo tramite il sito Amazon seguiva nell’arco di pochi secondi una telefonata da parte del loro servizio clienti. Dopo le scuse del caso, mi è stato assicurato che il pacco sarebbe stato consegnato l’indomani e che, a titolo di compensazione, mi veniva esteso gratuitamente per un mese il servizio Amazon Prime di consegne gratuite.
Seguivano via mail la conferma di quanto sopra e un questionario di gradimento sull’operato dell’addetta al customer service.

Chiaramente, il voto da me dato è stato 10/10.

La morale è piuttosto trasparente. Il disguido nella consegna può avvenire, che sia a causa di un dipendente svogliato o per oggettivi motivi di traffico, ma la differenza la fa la gestione del reclamo.

Memories of Dunkirk

Memories of Dunkirk

June 1990, the 1932-built Wairakei II leaves Dover headed to Dunkirk for the 50th anniversary of the WWII event.

The movie Dunkirk opened last week and instantly became a box office hit.
It’s by no means the first movie dedicated to the British Expeditionary Force’s evacuation from Northern France in June 1940 but it’s certainly the most colossal ever made.

I actually have a personal connection with Dunkirk and it’s through a boat.

When I lived in the UK at the end of the Eighties, I bought an old 52-foot motoryacht—the Wairakei II—that had taken part in the Dunkirk epic.
The Scottish-built Wairakei II was in sound shape but needed tons of cosmetic work. Among the horrors perpetrated on such a classic yacht was a stainless-steel bow pulpit, which replaced the original cast-iron anchor davit that some previous owner had simply scrapped. Likewise, the two dinghy davits were gone and, in lieu of the required mahogany dinghy, there was a sorry, half-deflated, sun-bleached rubber boat lying on deck.
I scoured the boat-breaker yards in Portsmouth until I found an anchor davit and two dinghy davits that would fit and looked like the originals. I also bought a 1940s mahogany dinghy to carry on deck.

It took me six months to bring the boat back to her original splendor, six months of scraping, buffing, lacquering and repainting. At the time, I hadn’t realized what I was getting into and what it would eventually cost, but it’s been an exciting project even though it nearly bankrupted me.
My self-inflicted ordeal ended in early June 1990, when the Wairakei II—together with 70-odd boats that had also taken part in the evacuation—sailed back across the English Channel for the fiftieth anniversary of the historic event.
On the day of the crossing, the weather was fine but the sea pretty choppy. Many of the old boats had trouble managing an average speed of 5 knots and the Royal Navy had one heck of a time escorting us across one of the world’s busiest shipping lanes. “Like walking a bunch of pedestrians across the M25”, said a Navy officer.

It took us the best part of the day to cover less than 50 nautical miles and the had already set when we entered the lock leading to the Dunkirk inner harbor. Hundreds of people lined the quays in the blustery evening and there were even Breton bagpipes welcoming us in.

A year later, I moved to Brussels and took the Wairakei II with me and moored her at the BRYC (Brussels Royal Yacht Club). In 1992, when I moved back to Italy, I sailed the boat through the Belgian and French canal network to the Mediterranean.

I can actually boast having sailed a boat to elevation 1300 feet, which is the highest altitude reachable through the lock system of the French Canal de l’Est. (The photo on the left shows my children, Rob and Laura, on the Wairakei II’s flying bridge in Weybridge, Surrey.)

I eventually entered the Mediterranean at Le Grau du Roi, in the Camargue and it was a warm summer day when the Wairakei II become acquainted with real waves once again.

Back to Dunkirk, the movie.
I hoped for a moment my old boat (which I eventually sold in 1993) would be featured in the film, but they apparently picked another yacht (they christened it Moonstone in the movie), which in real life is the Revlis. Curiosly, the real 1939-built Revlis did not take part in the Dunkirk evacuation but came from the same Scottish boatyard that built my old Wairakei II, James A. Silver of Rosneath.

The last time I walked on the Wairakei II‘s deck was in 1993, when I showed her to a young British shipwright who eventually bought her. But I’ve never stopped loving that majestic old lady and the very mention of the name ‘Dunkirk’ still sets my heart aflutter.

Neologismi di attualità

Neologismi di attualità

Ecco tre nuovi bizzarri termini inglesi divenuti popolari nel corso della campagna per il referendum Brexit e durante l’ultima campagna presidenziale USA.

Woke, Post-Truth, Nothingburger

Tra l’altro, i primi due termini sono appena stati aggiunti all’Oxford English Dictionary (OED) e fanno quindi ufficialmente parte della lingua inglese.

Woke è usato da qualche decennio come aggettivo e significa “consapevole” e “ben informato” in senso strettamente politico. Grammaticalmente parlando, tuttavia, woke è un mostro, trattandosi di una forma verbale (past tense di to wake) e non di un aggettivo o un nome. Il termine è salito vertiginosamente di popolarità sulle bocche dei militanti della sinistra in tempi recenti, assumendo connotazioni più restrittive: essere woke vuole dire essere vigile di fronte a fenomeni di ingiustizia sociale e razzismo.

Curiosamente, woke è stato adottato dal movimento radicale Black Lives Matter, accusato a sua volta di razzismo per aver respinto il concetto di All Lives Matter e per altre prese di posizione integraliste e scarsamente democratiche.

Altro neologismo entrato honoris causa nell’Oxford English Dictionary è post-truth, addirittura con il titolo di Parola dell’Anno 2016.

Il prefisso post in post-truth denota ‘l’appartenenza a un periodo in cui il concetto che lo segue è diventato trascurabile o irrilevante’. Qui il significato di post è quindi più vicino a “oltre” che a “dopo”.

Presente con notevole frequenza nell’espressione “post-truth politics”, la locuzione indica delle posizioni politiche più fondate sull’emotività e sulle convinzioni personali che su basi di comprovata veridicità. Nelle parole di un giornalista britannico “la verità si è svalutata a un punto tale che ciò che rappresentava il termine di paragone, la parità aurea, nel dibattito politico è una valuta ormai priva di valore.”

E per chiudere, vi propongo l’espressione nothingburger. Letteralmente un hamburger di niente, questo slang significa qualcosa come aria fritta, una montatura priva di fondamentotanto rumore per nulla oppure niente di niente.

Nothingburger non è propriamente un termine nuovo (c’è infatti chi lo fa risalire agli anni ’50) ma sta vivendo una nuova giovinezza nell’infuocato clima politico americano. Nel giro di pochi giorni l’ha pronunciato Van Jones, un commentatore politico della CNN, riferendosi alle isteriche accuse di collusione con la Russia mosse a Trump del partito democratico in assenza di qualsivoglia prova (un caso di post-truth politics?) Secondo Jones, che non è certo un sostenitore del presidente, si tratterebbe di una colossale montatura politico-giornalistica.

Altro utilizzatore di nothingburger è la ex-rivale di Trump, Hillary Clinton. Negli ultimi 7 mesi, la Clinton ha raccolto una dozzina di motivi alla base della sua sconfitta elettorale (ignorando quello più probabile—la pochezza della sua stessa candidatura—che a tutti gli altri è ben chiaro da tempo). Parlando appunto delle cause della sua sconfitta, Hillary Clinton ha definito nothingburger lo scandalo delle e-mail (decine di migliaia di messaggi) inviate tramite il suo server clandestino.

Se sia stato veramente tanto rumore per nulla, lo scopriremo nei prossimi mesi.

Are you feeling triggered, snowflake?

Are you feeling triggered, snowflake?

Chi ha seguito le elezioni presidenziali USA (e i primi 100 giorni dell’Amministrazione Trump) sui media americani avrà incontrato una serie di curiosi termini che proverò ad approfondire in questo post.

Deplorables

E’ un epiteto che Hillary Clinton ha rivolto all’elettorato del suo rivale prima del voto e che le è costato caro ai seggi. La frase incriminata diceva testualmente “you could put half of Trump’s supporters into what I call the basket of deplorables.”

Una curiosità: il candidato francese alla presidenza, Emmanuel Macron, ha rivolto simili insulti ai sostenitori della rivale Marine Le Pen. E’ sempre rischioso demonizzare l’altra parte quando c’è un’alta percentuale di elettori indecisi che, scioccati dalla virulenza dell’attacco, voteranno per la parte offesa. Ed è sempre un errore chiamare troglodita, nazista, vigliacco, infame chi non la pensa come te. Oggi i francesi eleggono il loro nuovo presidente. Chissà se Macron—che guarda alla Clinton come modello ed è stato apertamente sostenuto da Obama—pagherà pegno per le sue incaute affermazioni.

Inevitable

La traduzione del termine non presenta difficoltà. Secondo la stragrande maggioranza dei giornalisti e dei commentatori politici (oltre chiaramente ai sostenitori della Clinton), l’elezione di quest’ultima era inevitabile. Dopo aver quasi unanimemente sostenuto Obama nel 2008 e nel 2012, il Quarto Potere era convinto di essere riuscito a eleggere la Clinton. La bruciante sconfitta in dirittura d’arrivo ha prodotto o esasperato I tre fenomeni che seguono, dei quali buona parte della stampa occidentale mostra chiaramente i sintomi.

Fake News

In italiano sono le false notizie o—più colloquialmente—le bufale. I mezzi di comunicazione di massa e la blogosfera sono esplosi con una ridda di notizie non verificate, ma tutte votate a gettare discredito sulla Presidenza Trump, i suoi collaboratori, la sua famiglia e le persone da lui nominate alle maggiori cariche dello stato. Legami con la Russia, collegamenti con l’estremismo di destra, razzismo, antisemitismo, apologia del nazismo, scandali di ogni genere messi in circolazione da fonti non attendibili sono stati immediatamente ripresi dai media e messi in prima pagina. All’osservatore attento non sarà sfuggito il contrasto con il muro di stampa eretto dai media a protezione di Obama durante le sue due campagne presidenziali. Le stesse fonti che hanno chiuso un occhio sui trascorsi poco chiari del candidato Obama (molti dei documenti relativi alla sua carriera scolastica e accademica sono tuttora sotto sigillo) continuano a rovistare nel passato di Trump con la certezza di trovare (o di potersi inventare) qualcosa. Tutto questo mentre persistono forti dubbi sull’autenticità del certificato di nascita di Barack Hussein Obama, per il quale la stampa americana ha sempre mostrato un interesse molto inferiore rispetto alle dichiarazioni dei redditi di Trump.

Triggered

Un termine molto diffuso che definisce chiunque sia travolto da forti emozioni negative a seguito di un evento, una notizia o un’affermazione che non corrispondono alle sue idee o aspettative. I conduttori della maggior parte dei notiziari TV e siti online americani (ma ce n’è anche da noi e in Europa in generale) sono decisamente triggered, anche se buona parte del pubblico è interessata alla notizia e non alla reazione emotiva dei cronisti. Ma non solo la stampa è sotto shock per l’elezione di un candidato diverso, anche la quasi totalità della cosiddetta “creative community” mondiale (attori, musicisti, intellettuali) è triggered.
Non c’è un attore di serie A—ma anche e specialmente un attore fallito—che non cerchi i suoi 5 minuti di rinnovata notorietà sputando volgarità e accuse nei confronti dell’Amministrazione Trump. La questione, ovviamente, non è farsi andare a genio Donald Trump (a me, per esempio, Trump non piace—ma certamente la Clinton mi piaceva ancora di meno). Qui si tratta di rispettare il risultato delle elezioni e di utilizzare i mezzi che un sistema democratico offre per esprimere il proprio dissenso. L’insulto gratuito al presidente o ai suoi elettori può anche costare caro. Chiedetelo a Hillary.

Snowflake

Qualcuno ricorderà le scene di costernazione nel campo Clinton (v. foto del titolo) quando, malgrado i sondaggi favorevoli, la candidata dei Dems ha perso le elezioni. L’incredulità ha ceduto ben presto il posto al rifiuto della realtà.
Anche qui, studenti, intellettuali, attori, politici e altri poco avvezzi a gestire le contrarietà della vita hanno messo in mostra i tratti classici del fiocco di neve: fragilità e unicità. Piuttosto che affrontare la sconfitta come fa chi ne ha subite altre sul campo di battaglia della vita, hanno scelto di sentirsi offesi a titolo personale nella loro individualità di esseri umani chiaramente superiori ai Neanderthal che hanno vinto.
Inoltre, la vulnerabilità del fiocco di neve li ha portati a cercare conforto in una varietà di occupazioni, dai canti corali alla creazione di oggetti in plastilina fino alle manifestazioni di piazza in un non meglio definito movimento di “resistenza”.
Il termine snowflake (anche usato nella locuzione precious snowflake) non è esclusivo delle elezioni 2016 ma era già in uso da qualche anno per definire quei bambini viziati e coccolati dai genitori al punto di essere impreparati ad affrontare la vita in maniera efficace e indipendente, Il problema, secondo alcuni ricercatori, assume perfino connotazioni generazionali e non è, purtroppo, limitato all’America ma è ben noto anche da noi. A testimoniare la progressiva convergenza comportamentale in un mondo altamente globalizzato, anche nel nostro paese esistono segmenti della popolazione che accoppiano la fragilità e unicità dei fiocchi di neve con la risultante pretesa di un trattamento preferenziale. E’ questo crescente senso di entitlement che rende il fenomeno particolarmente preoccupante.

Falla finita, Kim

Falla finita, Kim

Dopo il fallito lancio del suo ultimo missile balistico, il “crazy fat kid” *mantiene un profilo basso. Parlo, ovviamente, del demente tiranno coreano Kim Jong-un e della serie di problemi di immagine che sta attraversando.

Il primo si è verificato il 15 Aprile 2017.

Con la parata militare del Giorno del Sole, il 105° anniversario della nascita del nonno Kim Il-Sung, il trentatreenne despota aveva voluto lanciare un messaggio di sfida al mondo, ma specialmente agli Stati Uniti, che sotto la presidenza di Donald Trump lo stanno marcando stretto—e non solo su Twitter.

Sabato 15, davanti alla telecamera della BBC, l’inviato a Pyongyang John Sudworth inneggiava enfatico allo “spettacolo straordinario” della potenza militare del Nord Corea, mentre sfilava dietro di lui una fila di camion carichi di missili. Alcuni di questi ordigni avevano però un’apparenza finta, alcuni mostravano addirittura delle ogive fuori asse col resto del missile.

Mentre il cronista inglese ancora blaterava estasiato, nel giro di pochi minuti si scatenava sul Web un putiferio di battute, che non devono essere sfuggite all’attenzione dei gerarchi coreani. Già da anni, nelle parate militari nordcoreane erano stati notati missili posticci il cui solo scopo era tranquillizzare le masse della solidità del regime e mostrae ai nemici un sapiente uso della cartapesta..

Il giorno dopo,16 Aprile 2017, mentre una squadra navale americana comprendente la portaerei nucleare Carl Vinson si dirigeva verso la penisola coreana, il giovane demente Kim dava l’ordine di lanciare un missile balistico dalla cittadina costiera di Sinpo. L’evento era ampiamente atteso ma non sortiva l’effetto voluto.

Il missile esplodeva in aria pochi attimi dopo il lancio; un’altra figuraccia per il giovane e obeso despota, che contava invece di mandare un messaggio forte.

A peggiorare la situazione, ha iniziato a serpeggiare in rete una voce per cui gli Stati Uniti sarebbero in grado di sabotare i lanci esercitando “interferenza digitale” con i sistemi usati dal Nord Corea. In altre parole, hacker governativi sarebbero capaci di far esplodere in volo i missili coreani. Già nel 2014 Obama aveva dato il via a un programma segreto per sabotare i lanci del regime nord-coreano. Non è del tutto escluso, quindi, che l’insuccesso di Sinpo sia dovuto alle contromisure elettroniche USA.

Intanto, Kim Jong-un è sparito. Forse è impegnato a far giustiziare i militari che gli hanno causato il recente doppio imbarazzo, forse si sta solo ubriacando come si dice ami fare.

Con un po’ di pazienza, al perdurare degli insuccessi della macchina militare di questo poverissimo paese, le truppe di Pyongyang, decimate dal loro stesso despota, si arrenderanno in massa alla Corea del Sud.

 

*crazy fat kid è il nomignolo affibbiato di recente a Kim Jong-un dal senatore americano John McCain