Non ditelo a Vlad

Non ditelo a Vlad

Se non ci fosse una guerra in corso, sarebbe una situazione da ridere.

Appena i difensori ucraini centrano un bersaglio strategico nello schieramento russo, la prima reazione degli alti papaveri militari di Mosca è negare tutto e specialmente non dirlo a Putin.

Stiamo parlando di generali di mezza età col petto decorato da medaglie di latta e non di teenager che hanno sbattuto la Panda di mamma contro un muretto.

Ma le dittature sono fatte così; i generali non servono lo stato, sono solo pedine al servizio del despota. Hanno una famiglia, puntano alla pensione e stanno ancora pagando le rate della macchina.

Quando l’Ucraina ha affondato la Moskva, i russi hanno prima di tutto negato l’evento, poi lo hanno trasformato in un misterioso incendio a bordo e si presume che questa sia stata la versione trasmessa a Vladimir Vladimirovich. Ci avrà creduto? Putin è uno psicopatico ma non un cretino.

Adesso si parla di una seconda nave colpita dai missili di Kiev e non più di una carretta ammaccata come la Moskva ma di un’unità nuova, la Admiral Makàrov. Trattandosi di eventi occorsi a decine di miglia dalla costa, non ci sono video girati da testimoni oculari, ma solo un filmato che circola online che sarebbe stato ripreso da un drone. In rete c’è qualcuno che sostiene si tratti di un falso.

Ma allora dov’è la Admiral Makarov?

E’ vero che il Mar Nero è un bacino molto vasto (2 volte il Mar Ionio), ma non è infinito e l’area di operazioni in cui agiva la nave russa era comunque circoscritta alla parte nordoccidentale del mare.

E se l’attacco missilistico alla nave è solo un’operazione di propaganda ucraina, basterebbe che i russi mostrassero un’immagine recente dell’unità per far crollare quella narrazione di parte.

Ma non lo fanno. Il che fa pensare che la Admiral Makarov sia veramente affondata (o bruci) al largo della costa Ucraina e che le teste pensanti sotto quei ridicoli cappelloni da ammiraglio russo stiano confezionando la versione da raccontare a Vlad.

Un altro incendio a bordo? Un raro fenomeno di autocombustione? In un verso o nell’altro, qualcuno tra gli ammiragli di Putin finirà trasferito a Novosibirsk.

Potrà consolarsi riflettendo che è meglio essere confinati in Siberia che ritrovarsi sul fondo del Mar Nero.

 

Paranoid much?

Paranoid much?

Putin’s contention that Ukraine joining NATO would effectively ‘surround’ Russia is ridiculous—and even the numbers prove it.
The total length of Russia’s boundaries is 57,792 kms (35,910 mi) of which 20,139 on land. The Russian border with Ukraine stretches for 1,926 km (1,197 mi), that is less than 10 percent of the international boundaries Russia shares with other countries.
Even if you were to add to the Ukrainian border the total length of Russia’s boundaries with actual NATO countries—which amounts to a little over 1,000 kms (621 mi)—you’d conclude that just one seventh of Russia’s land borders abut on NATO member states, that is a mere 3,000 km out of 20,000 of total land borders.
Russia is indeed surrounded—but just in Vladimir Putin’s paranoid mind.
Furthermore, NATO has no intention to invade Russia, yet Putin’s nefarious war of choice against his western neighbor is likely to strengthen NATO through the probable addition of Finland and Sweden to the coalition. Talk about the law of unintended consequences!
Sweden is no immediate neighbor of Russia, but Finland is—to the tune of 1,272 km (790 mi) of shared border—and the relationship between the two countries is scarred by memories of WWII.
And finally, Vladimir, consider this.
The border between Mexico and the United States runs for 3,145 kilometers (1,954 mi) and no Americans in their right mind feel ‘surrounded’ by Mexico.
30-odd years ago, your beloved Soviet Union imploded under the weight of a power projection it could no longer sustain. Its shrunken reincarnation, Russia, under your misguided leadership has bitten off more than it could chew when it invaded Ukraine.
You have doomed Russia’s economy and world standing. This is your legacy.

L’autogol del tiranno

L’autogol del tiranno

30 anni fa l’Unione Sovietica implodeva all’improvviso sorprendendo anche gli analisti che la osservavano 24/7.
Lanciato in una corsa agli armamenti che non poteva vincere, il colosso dai piedi d’argilla crollava e andava in pezzi. Nelle parole di Vladimir Putin, che a quei tempi era un funzionario del KGB, si trattò di una “vera tragedia” per il popolo russo.
Eppure oggi Putin, tiranno ormai settantenne, sta portando la Madre Russia verso una fine quasi identica a tre decenni di distanza.
Nella sua personale ossessione per il cambio di regime in Ucraina e la creazione di uno stato fantoccio che serva da cuscinetto ai confini della NATO, ha trascinato il Paese in una guerra che esso non voleva e che le sue forze armate non si potevano permettere.
Crollata l’illusione di una blitzkrieg di 3 giorni che avrebbe visto i carri armati russi sfilare in Piazza Maidan a Kiev, l’esercito di Mosca si è sgretolato davanti alla resistenza del popolo ucraino e ai russi non è rimasto altro strumento che il folle e criminale bombardamento delle città.
Solo il potere di veto che detiene nel Consiglio di Sicurezza dell’ONU ha impedito alla Russia di essere forzosamente espulsa dall’Ucraina (ed è lecito domandarsi a che serva oggi un organismo come l’ONU quando esso si rivela incapace di fermare uno stato membro che ne invade un altro, cioè la ragione per cui l’ONU è stata creata.)
A oltre un mese dall’inizio della guerra, il conflitto Russia-Ucraina si è trasformato in una proxy war, una guerra per procura, in cui armi, tecniche, intelligence e satelliti dell’Occidente tengono a bada e logorano un esercito di coscritti che perde giornalmente centinaia di uomini e mezzi e ha riportato a casa in sacchi di plastica una mezza dozzina di generali.
Ed ecco che l’uomo forte di Mosca si ritrova abbarbicato all’estremità di un ramo che è furiosamente intento a segare.
Biden nega di mirare a far cadere Putin, nonostante l’abbia ripetutamente affermato, ma probabilmente non sarà neanche necessario darsi troppo da fare.
Putin sta provvedendo da solo a distruggere l’economia e il futuro della Russia.
Per citare George Santayana, coloro che non ricordano il passato sono condannati a replicarlo.

Big Brother communication

Big Brother communication

The only communication totalitarian states are capable of is nothing but oafish propaganda, devoid as it is of any attempt at refinement or subtlety.
It’s like knocking on a door with a 50-ton tank, if you’ll forgive the all-too-current imagery.
I’m of course talking about Russia and China, strange bedfellows who share a common political DNA. The former was borne out of the ashes of the Soviet Union, which in turn was created by a bloody revolution a century ago. The latter is the end product of the Chinese civil war in the 1940s, which produced the People’s Republic of China (PRC).
For 50 years, the USSR and the PRC shared the same emblem, the hammer and sickle on a red background. With the collapse of the USSR in 1991, the workers’ symbology was shelved but remained deeply ingrained in a part of the Russian population.
Today, China engages in genocide and denies it. It develops a killer virus but gaslights the whole world by pushing improbable theories as to its origins. For a while, the CCP (China’s Communist Party) blamed the US Army, then it was Italy’s turn. The latest iteration of China’s lame disinformation campaign cottoned on to reports of deer-to-human transmission in North America.
All these crackpot theories were enthusiastically pushed by an army of brain-dead “influencers” who spewed out the party line verbatim (both on the Uyghur genocide and the Wuhan virus) on their web channels. Sadly, some of these wu-mao shills are western people who happily peddle the CCP’s disinformation du jour for a handful of yuan.
As for Russia, Vladimir Putin—the current Czar—can count on a massive propaganda machine made of news agencies and newspapers which are only too happy to propagate Putin’s drivel. It’s a known fact that investigative journalists and those who don’t toe the party line in Russia often meet with unfortunate and fatal accidents.
A few days before the invasion of Ukraine, a government-run outlet called RIA Novosti ran a piece by court jester Petr Akopov under the heading The Advance of Russia and the New World. In his swollen prose, Akopov referred to the implosion of the USSR as a “tragedy” and went on to say,

“Russia is restoring its unity – the tragedy of 1991, this terrible catastrophe of our history, its unnatural dislocation, has been overcome.”

This is rather at odds with Putin’s own contention that his foray into Ukraine was just a “special military operation.”
At any rate, when someone at RIA realized that the war in Ukraine was far from over, the story was deleted.

But whatever trash China or Russia run on the web, it lasts forever.

 

 

 

Depressione da stampa

Depressione da stampa

Non sono mai stato un lettore assiduo dei quotidiani, eccetto quando il mio lavoro lo richiedeva.
Se il tuo compito è informare la stampa, sei comunque costretto a monitorare le varie testate per verificare gli esiti del tuo lavoro. Impari anche presto che ai giornalisti importano poco i fatti, ma la categoria tutta non sa resistere alla tentazione di viaggiare gratis e ricevere un trattamento da VIP.

Oggi non ho più motivo di scorrere i giornali, ma mi informo esclusivamente online. Niente telegiornali, niente organi di stampa più o meno pilotati da interessi di parte e infestati da redazionali indegni.
Se voglio veramente farmi del male, vado sui siti delle agenzie di stampa (ANSA, AGI e compagnia).

Queste organizzazioni diffondono le notizie che vengono poi raccolte e pubblicate dai giornali minori, quelli che non dispongono di una rete di corrispondenti sul territorio.

In realtà, anche le cosiddette agenzie di stampa trasmettono un “semilavorato” che non sempre nasce dalle sue redazioni locali. Per motivi di costi, molte notizie (specialmente quelle dall’estero) sono pure e semplici traduzioni—spesso fatte coi piedi—di articoli pubblicati da giornali ed emittenti internazionali.
E’ quindi chiaro che, se la notizia proviene, per esempio, da The Guardian (UK) o The Washington Post o CNN (US), essa ha già subito un trattamento preventivo di parte che la rende piuttosto un’opinione.

Una menzione disonorevole in questo deprimente panorama merita la versione online de Il Giornale, una testata che nei decenni è caduta molto in basso, ma con la sua edizione virtuale, è sprofondata ancora più giù.

Perché i giornalisti quelli bravi costano, Ilgiornale.it ne conta veramente pochi. Il resto sono dei dilettanti allo sbaraglio che hanno serie difficoltà con l’italiano e accettano di essere foraggiati a noccioline pur di accumulare firme per poter un giorno raggiungere lo status eccelso di “giornalista professionista”.

Il risultato finale è un sito farcito di vaccate e di errori di battitura e i cui titoli, tradizionalmente imposti da un “titolista” cerebroleso, sono ignobilmente gonfiati per attirare i “click”. Il compianto Indro Montanelli, che fondò il Giornale nel 1974 e lo diresse per venti anni, si sarebbe tolto la vita a metà lettura.

Assurti alla gloria della pubblicazione online (“Guarda mamma, sono sul Web”) i redattori de ilgiornale.it oggi accompagnano i loro “pezzi” con delle brevi biografie, che denotano chiaramente la loro pochezza.

Ne riporto alcuni stralci, omettendo pietosamente i nomi dei colpevoli.

  • Catanese, vivo tra Catania e Roma. (Un autentico emulo di Jack Kerouac e del suo On the Road.)
  • Nato a Chieti, fieramente abruzzese nel sangue e nei fatti. (Un vero Braveheart adriatico)
  • Tifoso del Milan dalla nascita. (In un giornalista questo è un tratto fondamentale)
  • Nata a Napoli nel 1985 e cresciuta a Portici. (10 km fanno qualche differenza?)
  • Sono nata a Roma, ma vivo a Latina. (dagli Appennini alle Ande? Non proprio…)
  • Sono nato nell’ormai lontano 2 aprile del 1981. (Ma l’età non sempre porta saggezza…)
  • Sardo, profondamente innamorato della mia terra. (Commovente, ma al lettore che gliene frega?)
  • Nel corso degli anni ho accumulato una notevole esperienza nel settore della comunicazione, del marketing e dell’editoria.
    (..ma scarsa dimestichezza con l’italiano.) A lui si deve questa chicca nell’edizione di oggi:

Sembrerebbe che l’innesco che ha dato origine alle fiamme era in uno dei garage del traghetto.

Su queste sconfortanti note, passo e chiudo.

Let’s Go, Brandon

Let’s Go, Brandon

Coloro i quali si affacciano ogni tanto su siti Internet americani avranno forse letto uno slogan che li avrà lasciati perplessi: “Let’s Go Brandon!”, che tradotto liberamente non vuol dire altro che “Forza, Brandon!.”

Niente di più facile però che, una volta tradotto il titolo, la perplessità rimanga. Che vuol dire questo slogan in un contesto politico?

In teoria, niente. Ma in pratica è diventato l’inno di battaglia di chi è contro Joe Biden e la sua amministrazione.

Partiamo dalla genesi di “Let’s Go Brandon.”

LGB nasce dal goffo e squallido tentativo di un’inviata dell’emittente televisiva NBC di travisare il significato (inequivocabile) di un coro proveniente dal pubblico di una corsa automobilistica che urlava “Fuck Joe Biden” (vi risparmio la traduzione).

Ecco i fatti: il 2 Ottobre scorso, un giovane pilota del NASCAR, Brandon Brown, vince una gara a Talladega e viene intervistato a fine corsa dalla reporter Kelli Stavast. La cretina, giornalista convinta del suo ruolo chiave nel negare l’evidenza dei fatti e sostenere la linea politica della sua emittente, cercava di far credere che la folla dicesse “Let’s Go Brandon” invece di “Fuck Joe Biden” (1:05 nel video). Un chiaro esempio di gaslighting, per dirla in gergo politico americano.

Il tentativo fallisce miseramente e, come la proverbiale palla di neve che rotola dalla cima di un monte, LGB diventa un’inarrestabile valanga. In meno di due mesi è diventato l’urlo di guerra non solo di quelli che detestano Joe Biden, ma anche di tanti altri uniti da un meme goliardico che trascende la politica.

Già circolano T-shirt, berretti, bandiere e perfino mascherine con lo slogan che tanto preoccupa la Casa Bianca. Pochi giorni fa, un deputato repubblicano indossava in aula a Washington una mascherina con scritto appunto: “Let’s Go Brandon.” Un altro chiudeva un suo intervento in seduta pubblica declamando la stessa frase.

Il momento è poco propizio per Sleepy Joe, perché sfortuna vuole che quest’urlo coincida con il rapido crollo nella sua popolarità. Se i Repubblicani avessero voluto creare intenzionalmente questo fenomeno, avrebbero dovuto spendere milioni di dollari e rischiare comunque l’insuccesso, mentre invece LGB è nato spontaneamente e da un’emittente pro-Biden, il che rende la faccenda ancora più ironica. Per non parlare delle iniziali LGB, che appartengono storicamente a tutt’altro movimento.

Questo è un interessante commento sul fenomeno da parte di Mike Rowe. Secondo il noto conduttore televisivo, LGB è un moto popolare contro la stampa e i politici quando essi pretendono di negare l’evidenza di quanto avviene sotto gli occhi della popolazione sostenendo che la realtà sia un’altra. “Non puoi dire alla gente che la frontiera [col Messico] è sicura quando le immagini mostrate [dalla TV] rivelano decine di migliaia di persone che si riversano oltre il confine.” dice Rowe, sostenendo inoltre che LGB non è una posizione di parte, bensì una protesta collettiva contro chi vuole imporre la sua narrazione negando ciò che la gente vede chiaramente.