Ago 18, 2015 | The Blog
Accountability è una parola inglese che si rivela spesso difficile da tradurre, visto che il primo termine italiano che viene in mente è responsabilità. Sì, ma allora come si traduce responsibility?
Diciamo che, come di consueto, il contesto in cui viene usata la parola fa la differenza (e, di fatto, questo vale per tutte le parole). Estrapolata accountability dal contesto, una traduzione meno vaga di responsabile può essere: tenuto a rendere conto di.
Dove responsible sottintende spesso una responsabilità morale per qualcosa, accountable vuol dire che se ne pagheranno personalmente le conseguenze. Ci possiamo sentire responsabili di qualcosa (“se avessi risposto alla sua telefonata, non si sarebbe suicidato”) pur non essendo chiamati a renderne conto.
Un ministro dei beni culturali è accountable per il progressivo decadimento di Pompei, o almeno lo sarebbe in un’ottica aziendale. Se sei il direttore di produzione, dovrai rendere conto personalmente per una linea di produzione che si ferma per carenze di manutenzione. Quando si parla di governi e politica, però, le certezze diventano molto più sfumate.
Accountability è un concetto molto importante nei Paesi anglosassoni, il che non significa che tutti siano pronti ad accollarsela.
Guardate il caso Clinton, che occupa da mesi le prime pagine dei giornali.
Hillary Clinton è un’esperta nell’arte di viaggiare sull’orlo dell’illegalità e una bugiarda consumata, come più volte dimostrato durante i suoi 8 anni come first lady americana e in seguito come Segretario di Stato sotto Obama, un’Amministrazione che non brilla affatto per trasparenza nonostante le facili promesse elettorali.
Intrighi, prevaricazioni, corruzione, depistaggi e menzogne hanno sempre accompagnato la carriera di Hillary. C’è chi vuole che, ancora prima di fregiarsi del cognome Clinton sposando Bill nel 1975, Hillary Rodham avesse già brillato per le sue “bugie e il comportamento poco etico”.
Dal momento in cui è diventata Segretario di Stato, la Clinton ha sempre utilizzato un suo indirizzo di posta personale e non quello del Dipartimento di Stato, come richiesto dalle regole. Il suo server di posta era situato presso la sua residenza nello Stato di New York e inaccessibile a estranei.
Questo ha creato notevoli preoccupazioni per la sicurezza dell’account sia nel campo avversario che nel Dipartimento di Stato e anche nel suo partito. Inoltre, il fatto che lei abbia provveduto a cancellare dal server 30.000 mail che ha definito “private” non aiuta particolarmente a crederle, visto che sono forti i sospetti che Clinton abbia costantemente sfruttato la sua posizione di capo della diplomazia USA (e la quarta autorità dopo il presidente) per incassare cifre iperboliche in cambio di “accessibilità” da parte di interessi privati. Il libro Clinton Cash di Peter Schweizer solleva una serie di quesiti inquietanti—ma apparentemente non per i Clinton, che sostengono si tratti dei soliti attacchi di parte.
Ora che Hillary è la front runner dei democratici nelle elezioni presidenziali 2016, tutti i nodi stanno venendo al pettine e il suo server è in mano all’FBI. Non c’è alcun ragionevole dubbio sul fatto che lei sia accountable per tutto quanto sopra, ed è chiaro a tutti che i suoi tentativi di minimizzare o negare le sue responsabilità dirette (anche penali) la stanno alienando dal suo stesso partito.
Ben prima della nomination del candidato democratico, sono certo che assisteremo all’implosione della Clinton, una circostanza che è ormai inevitabile—e dovuta, aggiungo a titolo personale.
Il partito è fortemente preoccupato (anzi, per molti sarebbe già in pieno panico) per la possibilità che i misfatti della Clinton vengano rivelati e lei sia messa in stato di accusa in un momento successivo alla sua nomination.
Questo la squalificherebbe come candidata e avvantaggerebbe enormemente i repubblicani. Ecco perché nel partito democratico è partita la ricerca frenetica di altri candidati alla nomination che siano più accettabili del socialista settantaduenne Bernie Sanders, oggi l’unico a poter competere con la Clinton a livello di supporto popolare.
L’accountability è una cosa seria e la Clinton sta per scoprirlo alla tenera età di 67 anni.
Lug 6, 2015 | The Blog
In Grecia hanno vinto i NO.
Ma che cosa hanno vinto?
- I bancomat continuano a centellinare Euro e le file di correntisti non sono diventate più corte di prima. Tra qualche giorno, se non si trova rimedio, le banche avranno finito i soldi e staccheranno la spina ai bancomat.
- Varoufakis se n’è andato. Aveva annunciato le dimissioni se avessero vinto i SI, ma evidentemente non c’era più posto per lui nemmeno dopo la vittoria dei NO. Tsipras lo ha fatto saltare come un fusibile per poter riprendere il dialogo con la troika UE, FMI e BCE che Varoufakis aveva irritato dal primo giorno.
Dopotutto, prestare soldi a uno spiantato e sentirsi dare del “terrorista” quando li rivuoi indietro può essere irritante.
- Dice Tsipras che ha vinto la democrazia. Ma la democrazia è un concetto e i concetti non tremano per i risparmi che hanno messo in banca. Democrazia (la parola è greca, lo sanno tutti) vuol dire governo del popolo. Ed è il popolo, invece, che trema (e fa bene) per quella manciata di Euro che ha sul conto. E’ lo stesso popolo che, tramite i suoi rappresentanti democraticamente eletti, ha indebitato il Paese fino alla rovina e accettato il salvagente europeo 5 anni fa. Ora il popolo, che ha praticamente perso tutto, avrebbe vinto?
I sostenitori di Syriza e tutti quelli che hanno votato NO hanno vinto una serata di canti e balli in centro ad Atene, con i tamburi, i fischietti, le trombe da stadio e le bandiere. Come in tutte le belle manifestazioni della sinistra o quando l’Olympiakos vince lo scudetto. Chi ha votato NO lontano dalla capitale avrà visto la festa dalla TV di casa o al kafeneion. Peccato. In Piazza Syntagma avrebbe avuto la fortuna di incontrare Grillo, Vendola e altri ammiratori di Tsipras in trasferta ad Atene per brillare di luce riflessa e testimoniare che anche i falliti possono divertirsi.
Alla tipa che nella foto sventola con voluttà la bandiera greca darei appuntamento tra sei mesi. Ci vediamo a Plateia Syntagmatos ad Atene e ci prendiamo un caffè. Così mi dici esattamente che cosa hai vinto e che cosa ti ha portato il referendum inutile di Tsipras.
Aggiornamento dell’11/07/2015
Qualcuno mi aiuti a capire perché temo di essermi perso qualcosa.
Dopo aver “vinto” il referendum contro le misure di austerità, Tsipras ha fatto in extremis una serie di proposte all’Europa che somigliano fortemente a quel piano che aveva invitato i greci a respingere nemmeno una settimana prima. Al punto che, nel copia e incolla, qualcuno non si è accorto che comparivano ancora le date del documento precedente. Per i greci, le misure di austerità sono altrettanto se non più pesanti. E queste il parlamento le ha votate in poche ore, anche se in casa Syriza c’è un po’ di trambusto. Li capisco, anche loro hanno la sensazione di essersi persi qualcosa.
Il narcisista Varoufakis—che aveva promesso supporto totale al suo successore Tsakalotos—al momento di votare il piano in parlamento era assente. L’hanno fotografato poche ore prime mentre prendeva il traghetto per l’isola di Egina, dove ha una casa. Ubi maior…
La farsa greca fa ridere molti, ma milioni di persone nel Paese non la trovano affatto divertente. La Grecia è allo stremo e la povera gente non è mai stata così povera.
Chissà che pensano ora quelli che solo qualche giorno fa facevano i girotondi in Piazza Syntagma con le bandiere dell’OXI. Quelli che hanno vinto, per intendersi…Hanno detto di no ad un pacchetto di misure pesanti per vedersene imposto un altro più pesante (stavolta senza referendum).
La copertina di Panorama della scorsa settimana riassume per me in una sola parola il quadro che sto osservando. Ma la vicenda non è ancora chiusa.
Mentre gli “amici della Grecia” (Francia, Italia, Malta, Cipro) si sono dichiarati favorevoli al terzo salvataggio di Atene, il silenzio della Germania lascia pensare al peggio. Ma sarà veramente il peggio tagliare i cavi di ormeggio della Grecia e lasciarla andare per la sua strada con Syriza al timone? Qualcuno crede alla capacità (o alle intenzioni) di Tsipras di tener fede agli impegni con una coalizione che fa acqua da tutte le parti e la sua etica da saltimbanco? In altre parole, la comprereste da Tsipras un’auto usata? O la tanto celebrata moto di Varoufakis?
Lug 2, 2015 | The Blog
Che il partito greco Syriza fosse una manica di incapaci è un sospetto che molti hanno avuto da quando è andato al governo. Adesso, il suo massimo esponente e primo ministro greco, Alexis Tsipras, lo riconferma con i fatti. Da una parte si dichiara aperto a trattare con i creditori ma al tempo stesso invita i greci a respingere in un referendum popolare l’”estorsione” di un’Europa che chiede ad Atene ulteriori sacrifici in cambio di un nuovo salvataggio in extremis.
Tsipras ha esortato energicamente a votare NO per permettergli di affrontare a muso duro—perché legittimato dalla piazza—il fronte dei creditori. Il suo ministro delle finanze Varoufakis ha perfino promesso di dimettersi se vincerà il SI di coloro che sono disposti ad accettare le richieste europee. Staremo a vedere, al voto mancano solo pochi giorni.
Viene spontaneo domandarsi a che cosa serva alla Grecia un governo che passa la palla alla popolazione quando si tratta di decidere il futuro del Paese. Riusciranno i greci a ragionare serenamente su quello che conviene loro nel medio-lungo termine? O si faranno trascinare dall’euforia rivoluzionaria e dall’arroganza del team Syriza?
In Grecia, decenni di populismo e finanza allegra hanno portato la nazione sull’orlo del fallimento. Una vittoria dei NO condurrà probabilmente alla fuoriuscita di Atene dall’Euro, con conseguenze devastanti sull’economia del Paese. Sebbene pesante, l’ulteriore inasprimento del rigore fiscale richiesto dall’Europa sarebbe una soluzione meno rischiosa perché più controllabile. Se vinceranno i SI, le dimissioni di Varoufakis saranno una pura formalità, visto che l’Europa chiederà a quel punto di trattare con altri interlocutori al governo.
Nel frattempo, si sono moltiplicate nel mesi scorsi le richieste fatte alla Germania di indennizzare la Grecia per i danni di guerra subiti nel periodo 1941-1944. Si tratta, secondo una fantasiosa stima greca, di quasi 280 miliardi di Euro, mentre (guarda caso) l’aiuto finanziario esteso alla Grecia nel 2010—e che il Paese non riesce a ripagare—ammontava a 240 miliardi. In altre parole, la Grecia avrebbe un credito di 40 miliardi di Euro—cifra che, vista la recente performance di Tsipras e Varoufakis, il Paese troverebbe il modo di dilapidare in pochi mesi.
Ad Atene sostengono che richiedere i danni di guerra proprio mentre si discute il debito con l’Europa sia solo una coincidenza, affermando che quella richiesta costituisca per l’attuale governo un “dovere storico”. Un dovere che, evidentemente, la Grecia si era dimenticata di esercitare per 50 anni.
La posizione greca è stata condita con virulente campagne di stampa antitedesche, con il prevedibile ricorso alle analogie tra il cancelliere tedesco di oggi e i nazisti di ieri.
L’unico effetto sortito, però, sembra essere stato un calo dei turisti tedeschi in Grecia. In un Paese dove il contributo del turismo all’economia è dell’ordine del 17%, ci si domanda se Tsipras e compagni non abbiano esagerato con i bicchierini di ouzo.
Il vero problema dei danni di guerra subiti dalla Grecia è che la Germania ha già da decenni concordato e saldato la pendenza, pagando 115 milioni di marchi negli anni 60.
Il compenso pagato a suo tempo “non basta”, sostengono i greci, perché non avrebbe tenuto pienamente conto delle atrocità commesse dai tedeschi in Grecia durante la Seconda Guerra Mondiale. Ad Atene, qualcuno ha redatto una lista dei danni subiti per mano tedesca e ci ha messo a fianco una valutazione economica.
Anche l’Italia ha saldato alla Grecia i danni di guerra causati dalla sua invasione del 1941. Nel Trattato di Parigi del 1947, la cifra fu fissata in 105 milioni di dollari di allora, più la cessione del Dodecaneso, che apparteneva all’Italia dal 1912. Ma se ad Atene il piatto piange, c’è sempre la possibilità che il governo venga a bussare anche alla porta dell’Italia per un’integrazione delle riparazioni. Dopotutto, le atrocità commesse dall’esercito italiano in Grecia sono ben documentate, anche se la nostra opinione pubblica ha sempre preferito credere alla versione di essere stati “brava gente” durante la scampagnata ellenica.
Magari in qualche ministero greco qualcuno sta già lavorando al conto da presentare a Renzi.
Giu 28, 2015 | The Blog
Qualche giorno fa, parlando di Internet, Umberto Eco ha detto: “I social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel. E’ l’invasione degli imbecilli”. E ancora: “La tv aveva promosso lo scemo del villaggio rispetto al quale lo spettatore si sentiva superiore. Il dramma di Internet è che ha promosso lo scemo del villaggio a portatore di verità”.
Per rendersi conto di quanto siano vere le parole di Eco, basta andare a leggere i commenti che appaiono in rete nei siti che non vagliano i contributi degli internauti. Senza andare troppo lontano, basterà dare una rapida occhiata ai commenti dei lettori proprio in calce alle dichiarazioni di Umberto Eco sul sito dell’ANSA. E magari si potrebbe anche estendere la ricerca ai commenti che compaiono anche negli altri articoli dell’agenzia. Ne prendo uno a caso, quello dell’uomo incornato e ucciso da un toro in Spagna. Sono 120 commenti a tutt’oggi e che vi invito a leggere se troverete il coraggio.
Umberto Eco ha ragione. L’imbecille, emarginato e inascoltato appunto perché tale, trova la sua redenzione online. E alle sue esternazioni idiote rispondono altri come lui.
Chi fosse preoccupato per la sorte degli imbecilli, si rassereni: essi non sono in via di estinzione. Anzi.
Lo testimoniano sia la vacuità che il numero dei loro commenti. Alcuni si compiacciono di pubblicare e difendere ad oltranza tesi contrarie al buon senso e cercano lo scontro virtuale con i paladini dell’ovvio, questi ultimi invece cercano di far ragionare gli imbecilli—un’altra operazione priva di senso. I toni diventano accesi e le parole si fanno più pesanti, finché si finisce in rissa.
Un anno fa, sempre su questo blog, ho citato una curiosa “legge”, la Godwin’s Law.
Mike Godwin è un autore e avvocato americano che ben 25 anni fa ha coniato questa strana legge: “Al moltiplicarsi dei commenti in una discussione online, aumenta la probabilità che qualcuno cominci a fare paragoni con Hitler e i nazisti”.
E’ pressoché inevitabile che, nelle risse virtuali, venga prima o poi invocato il nome di Hitler o del suo partito a indicare l’intolleranza verso le tesi altrui.
La soluzione? Invece di pubblicare commenti di un paio di righe banali o sballati, chi ha qualche imbecillità da dire faccia uno sforzo in più: scriva un blog. Proprio come ho fatto io.
Mag 23, 2015 | The Blog
It was 48 years ago, in 1967, that I attended a flight familiarization course run by the Italian Air Force. High-school students were encouraged to apply to such two-week programs, which included classes on the principles of flight and also flying lessons in a single-engined basic trainer.
My mother was my only parent (my father having died a year earlier) and she initially refused to sign a waiver allowing me to enroll. We had a major falling out because of this but she eventually acceded to my request and the next thing I knew I had been accepted by the Air Force, after a physical test that made me feel like an astronaut candidate.
It was a gray, blustery day when we students eventually walked on the tarmac to our allocated aircraft. They made us strap on a parachute and showed us how to walk on the wing root to access the cockpit. The plane was a Piaggio P-148 from the Fifties and had tandem seats inside a bubble canopy that afforded excellent all-round visibility. I was beside myself with excitement when the Air Force NCO in the left seat showed me the main gauges on the instrument panel and cranked the engine into life. The propeller started turning fast and we started rolling toward the runway in a cloud of noise and heady avgas smells, our view forward all but blocked by the plane’s nose. We taxied to a spot near the head of the runway where the pilot ran his pre-flight checks for a couple of minutes, explaining to me what he was doing over the roar of the engine. Then we hit the runway and, in a matter of seconds, the tail lifted and soon thereafter we were climbing. I could see the town of Guidonia slide away under our right wing and we soon reached the right altitude for our first flying lesson. When we landed a while later I was totally and irremediably hooked.
I knew right then I wanted to fly my own airplane and I was prepared to start saving money to get my pilot’s license. Two years later I was climbing into another old airplane—even older, in fact, than the all-metal Piaggino—for my first solo flight (see below). But it wasn’t my own plane, just a flying school workhorse, and—a short few years later—my flying career ran out altogether when the pressures of life convinced me I couldn’t afford flying anymore. Over the following decades I did fly zillions of miles, but I was a mere airline passenger. Meanwhile, the old P-148 had been scrapped as a basic trainer to be replaced by more modern aircraft.
Flash forward to 2015. I was in Pontedera, near Pisa, a few days ago on a business trip when a colleague suggested we visit the Piaggio museum during our lunch break. It happened to be another gray, blustery day when we entered the museum courtyard. I was looking forward to checking out vintage Vespas and other scooters (the Piaggio company that built airplanes belonged to the same group that still makes the famous two- and three-wheeled vehicles) but I was taken completely by surprise when I saw a Piaggio P-148 trainer standing proudly next to the museum entrance.
The bubble canopy’s Plexiglass was cloudy and the plane’s aluminum surfaces were dusty with age, but there it was all right, the old trainer responsible for my teenage infatuation with flight.