La sveglia suona alle 5:00 e ci scuote da un sonno profondo, aiutato anche dalla pillola di melatonina che prendiamo ogni sera da quando siamo arrivati in India cinque giorni fa. Ci muoviamo nella poco familiare stanza d’albergo come due zombie, rovistando nelle valigie ancora da disfare alla ricerca di indumenti caldi da indossare. Siamo a Nuova Delhi, dove in questi giorni si sono toccate le temperature più fredde da 40 anni.
Durante la notte gela e, dall’alba fino a metà pomeriggio, il sole è nascosto da una fitta nebbia che grava sulla città. La temperatura non sale mai sopra i 6 – 7 gradi.

Alle 5:45 squilla il telefono e dalla reception ci avvisano che la nostra macchina è arrivata. Ci dovrà portare alla stazione di Hazrat NIzamuddin, nella parte sud di Delhi. Usciti dall’albergo il freddo è pungente. L’autista, un Sikh, è seduto al posto di guida della Tata Indigo avvolto in una coperta pied-de-poule che lo copre dal turbante ai fianchi.

Partiamo nell’oscurità più completa, interrotta a tratti da qualche lampione che ancora funziona e dai fuocherelli accesi sui marciapiedi da quelli che abitano in strada. Nella luce dei fari, Delhi sembra una città bombardata, con i crateri nell’asfalto e i marciapiedi divelti che la calca e il traffico delle ore di luce tendono a coprire. Ma ora, alle 6 del mattino, la combinazione di oscurità e nebbia fa apparire in modo spettrale nel fascio dei fari ogni dettaglio dello sfacelo di questa megalopoli.

La Tata si muove a velocità moderata per evitare di sfasciarsi in qualche buca e percorre il viale Sri Aurobindo in direzione nord. Poi gira a destra sulla Lodhi Road, che segna il confine meridionale della Delhi residenziale progettata da Edwin Lutyens negli anni ’20 e dove alloggiavano i funzionari del regno coloniale.

Alla fine della Lodhi Road, spunta dalla nebbia la rotonda dove sorge la Sabz Burj o Torre Verde. Nel XVI secolo, quando fu costruita, la sua cupola era rivestita di maioliche verdi. Restaurandola, la sovrintendenza ai monumenti della città ha usato maioliche blu per motivi che non ha mai spiegato a nessuno.

Ora la nostra auto si perde in un dedalo di vie buie nel quartiere di Nizamuddin. Ogni tanto, in qualche slargo, compare una chiazza di luce: sono i venditori ambulanti di vivande che illuminano i loro carretti con una fila di lampadine alimentate da un piccolo generatore a benzina. Qualche individuo avvolto in una coperta acquista qualcosa da mangiare, altri si arrampicano dove possono nell’autobus sgangherato che si è appena fermato.

Arriviamo alla stazione, che compare nella nebbia all’improvviso. In realtà, ne vediamo solo le luci di un bar a livello strada e una scalinata sudicia e ripida che porta all’interno. Tutto intorno all’ingresso e lungo le scale si accalca una folla vociante. C’è anche qualcuno dorme sul pavimento, mentre altri lo scavalcano portando fagotti e scatoloni di dimensioni improbabili. In un angolo vediamo uno degli onnipresenti metal detector di cui l’India è piena. Forse è rotto, forse i militari che lo fanno funzionare a quest’ora dormono.

Ora percorriamo una pensilina sopraelevata che permette di attraversare una dozzina circa di binari e di prendere la scalinata corrispondente al proprio treno. Ma sui cartelli luminosi, il nostro (il Taj Express delle 7:00 diretto ad Agra) non compare. Strano, sono le 6.20 e il treno si forma qui. Aspettiamo qualche minuto mentre la folla ci scorre a fianco e l’altoparlante non cessa di blaterare.

Finalmente riconosco in un annuncio un paio di parole conosciute. Ora il testo è ripetuto in inglese e non sono buone notizie. Il Taj Express ritarderà di 4 ore (così dicono ora). Il pensiero di farci almeno altre 4 ore in questo disastro di stazione è repellente. Torniamo in strada per decidere se e come arrivare ad Agra per visitare il Taj Mahal. Doveva essere un’escursione di una sola giornata ma le cose non stanno andando nel verso giusto.

I biglietti ferroviari che avevamo ottenuto con grandi sforzi (leggi qui) non servono più a niente, se non a darmi la scusa per dipingere questo squallido quadretto indiano.

 Nella foto: il biglietto dell’andata con la pubblicità della “pillola del giorno dopo”.