Gen 1, 2010 | The Blog
“Un Drake a Bankitalia”, titola il Sole-24 Ore il 31 Dicembre 2009, riferendosi esplicitamente a Mario Draghi.
Quello che è meno chiaro è l’uso della parola “drake”, che in Inglese è il maschio della papera.
A meno che l’articolista non si riferisse a Sir Francis Drake, l’avventuriero e pirata al soldo della corona inglese.
Ma allora diventa meno chiara l’allusione al banchiere ed economista italiano. Banchiere e pirata? Ma quando mai si è vista una cosa del genere?
Stesso dubbio sorge rispolverando il soprannome dato a Enzo Ferrari, “il drake”. Come nasce il nickname?
Un anonimo Internauta propone questa spiegazione:
deriva da Drake un importante corsaro inglese che si era distinto x la sua forza e determinazione nel combattere durante le battaglie e quindi Enzo Ferrari era chiamato così, “drago” è la traduzione della parola.
Peccato che, come abbiamo visto, non sia vero. Drago in Inglese è “dragon”.
Alla voce Sir Francis Drake, Wikipedia.it ci confonde ulteriormente:
Drake si guadagnò il soprannome di El Draque (“Il dragone”), che è la diretta traduzione del suo cognome.
Non proprio: Dragone in Spagnolo si dice Dragòn. Andiamo a vedere Wikipedia in Inglese:
(…) a hero to the English but a pirate to the Spaniards to whom he was known as El Draque, ‘Draque’ being the Spanish pronunciation of ‘Drake’.
Aha! Ora cominciamo a vederci più chiaro. Draque è come lo pronunciavano gli Spagnoli e non la traduzione (gli Italiani l’avrebbero pronunciato Drache). Ma l’enciclopedia virtuale prosegue: “His name in Latin was Franciscus Draco (‘Francis the Dragon’)”.
Il pasticcio sarà forse colpa della trascrizione latina del nome originale, sorte toccata anche ad altri nomi celebri nel corso dei secoli (vedi Renatus Cartesius alias René Descartes)?
Resta sempre la possibilità che il soprannome Drake volesse fare allusione al celebre mago Mandrake dei fumetti, che da noi ovviamente si pronuncia Mandràche.
Due persone su tre sono fermamente convinte che Mandrake in Inglese voglia dire “uomo drago” (riecco l’equivoco drago = drake). In realtà, Mandrake è solo una pianta medicinale, la Mandragora officinarum, pertanto sprovvista di ali e di fiato fiammeggiante.
A complicare le cose ci si mette perfino lo scomparso Enzo Biagi nella sua biografia di Enzo Ferrari:
“Lo hanno definito anche ‘stregone,’ o ‘Drake’, con chiara allusione al leggendario corsaro”.
Insomma, per il giornalista, Enzo Ferrari poteva essere il mago Mandrake o il pirata Sir Francis Drake. Esclusa quindi ogni parentela con i draghi o (questo ci conforta non poco) con il maschio della papera.
Tirando le somme: drake e drago sono dei cosiddetti “falsi amici”, li accomuna solo la trascrizione di Drake in Latino, lingua che allora era ancora in uso nei documenti ufficiali. Un buon dizionario riporterà anche un uso arcaico e obsoleto di “drake” nel senso di “drago”, derivato dal termine “draca” dell’Old English, che a sua volta l’aveva attinto dal Latino.
Dubito però che il redattore del Sole-24 Ore o la tifoseria del cavallino di Maranello si siano rifatti al termine arcaico. E’ molto più probabile che si tratti dell’ennesimo vocabolo di quella pseudolingua nota come Britalian che ogni tanto affiora.
Dic 25, 2009 | The Blog
Nonostante le sue dimensioni contenute, il Pianeta Palla esercita una strana attrazione gravitazionale nei confronti del Business English più gergale. Sicuramente lo sport è una grande fonte di analogie, con una miriade di metafore condivise e il cui significato è immediatamente chiaro all’interlocutore, dato che si tratta in maniera statisticamente preponderante di individuo maschio e frequentatore degli stadi. Sfortunatamente, quando noi abbiamo a che fare con degli Americani, le loro espressioni più colorite derivano da due sport che da noi sono poco diffusi: baseball e American football, il che ci pone in una situazione di discreto svantaggio nel cogliere al volo il significato di certe similitudini.
Mi riferisco a frasi del tipo: “He dropped the ball”, “He picked up that ball and ran with it”, “He threw me a curve ball” o ancora più misteriosamente (data l’assenza materiale della palla) “It came out of left field”.
La diffusa espressione “playing hardball” nasce nel mondo del baseball, in contrapposizione alla variante del gioco nota come “softball” e che fa uso di una palla appena più morbida. Il suo significato è chiaramente “fare sul serio” o “giocare duro”.
Ma non basta, gli sport da rotolamento non si fermano qui. “Standing behind the 8-ball” viene infatti dal biliardo e denota una situazione di estremo svantaggio.
L’espressione tanto criptica quanto diffusa “to play ball” non è tuttavia attribuibile a qualsiasi sport basato su una palla. Essa deriva infatti dall’esortazione Play ball! che tradizionalmente segna l’avvio delle sole partite di baseball.
“Touching base”, anch’essa un’espressione mutuata dal baseball, appartiene a quelle misteriose metafore sportive in cui la palla non compare nemmeno. L’altra espressione “Three strikes, you’re out” assume oggi sfumature che trascendono il suo significato originario mutuato dal baseball: al terzo “strike”, che per semplicità chiameremo palla mancata, il battitore è fuori e viene sostituito da un altro.
La frase “alla terza che mi combini sei fuori” oggi non identifica soltanto l’individuo che, al terzo grave errore, farà bene a cercarsi un altro lavoro. A seguito di recenti leggi promulgate in più stati USA, chi si renda ripetutamente responsabile di gravi crimini (ecco spiegati i 3 strike) viene condannato d’ufficio all’ergastolo o a pene detentive molto lunghe. Per ora, tuttavia, i reati commessi dai “colletti bianchi” non rientrano nel campo di applicazione di queste leggi.
Ma torniamo alla superficie misteriosa del Pianeta Palla. Chi non si è mai grattato il capo sentendo un Americano pronunciare l’espressione: “this is a ball-park figure” o “gimme a ball-park estimate”?
Qui siamo sempre nel magico regno del baseball, che (insieme a God, Country, Mom and Apple pie) è uno dei valori fondamentali della società USA. L’espressione si può tradurre con “stima approssimata” o con l’avverbio “spannometricamente”, che appartiene al nostro striminzito patrimonio di gergo aziendale.
L’origine dell’espressione altro non è che il calcolo “a occhio” del numero di spettatori presenti in uno stadio di baseball.
Lo sparuto contingente di frasi pallocentriche di derivazione anglo-australiana è capeggiato da “it’s (just) not cricket” (che significa “non è regolare”, “è inaccettabile”), con un ovvio riferimento a quel misterioso e soporifero gioco inventato dagli Inglesi e al quale essi vengono sconfitti con disarmante regolarità dai Pakistani.
But this is a whole new ball-game…
Dic 9, 2009 | The Blog
Giornata deludente oggi a Kiev. Una raffica di incontri organizzati dall’ufficio ICE nella capitale ucraina mi lascia solo un gran mal di testa e fogli di appunti destinati al cestino.
Non vedo un mercato per i prodotti della mia ditta e in compenso ho incontrato un bel cast di faccendieri ed ex-dirigenti di aziende di stato decotte e ricomprate a quattro soldi.
Faccio due passi per il centro città scendendo dalla Shovkovychna dove si trova l’ICE e mi incammino per la Khreshchatyk a guardare la gente e le vetrine. È fine Ottobre, l’aria è frizzante e il sole splende in un cielo limpido.
Vedo parecchie belle donne dal fisico statuario ma vestite in maniera curiosa. Ne incrocio una che ha i capelli rosso fuoco, gli occhi celesti, una giacchetta di nappa carta da zucchero, la gonna in pelle di mucca Simmental bianca e marrone e gli stivali al ginocchio in pelle rossa lucida.
E come lei tante altre, paludate in maniera improbabile, ma indubbiamente belle.
Con il mio vestito scuro e il cappotto che indosso sono immediatamente riconoscibile come un “occidentale”. Mi attiro sguardi rapaci da parte di molte giovani ucraine più o meno dell’età di mia figlia.
C’è poco da montarsi la testa. La mia interprete, Elena, mi ha detto che il sogno di ogni giovane ucraina è venire a vivere nell’Europa Occidentale. Più del portafogli zeppo di Hryvnia e l’Hummer H2 con i vetri scuri (ormai ne girano tanti quante sono le Lada), la donna ucraina guarda in un uomo la possibilità di mollare tutto e andare a vivere a Milano, Parigi o Monaco.
Si è fatta ora di cena. Nel mio passeggio senza meta ho visto un ristorante che mi intriga, si chiama Pervak e sembra un posto allegro e ben frequentato. Ho voglia di riscattare l’esperienza disarmante di una cena retrò alla maniera dei ristoranti di stato (Hotel Rus, ieri sera). Bersaglio centrato, Pervak ha un’impronta mitteleuropea, è simpatico e raffinato. Potrei essere a Vienna o a Lubiana e mi trovo subito a mio agio.
Comincio a capire queste giovani ucraine: sono da poco a Kiev ma già vorrei essere altrove.
Dic 9, 2009 | The Blog
Arrivo a KNIB (che si pronuncia Kiev), prendo un taxi per l’Hotel PYCb (che si pronuncia Rus) e già sento che avrò qualche problema. Se in Cina la battaglia è persa in partenza, in Ucraina potrei ancora farcela a leggere le insegne e i nomi delle strade. Il fatto è che sono troppo lento e i cartelli mi sfilano sotto il naso prima che abbia faticosamente finito di leggerli bisbigliando le scritte lettera per lettera. Il tassista deve avermi preso per uno squilibrato che parla da solo.
Arrivo in albergo, un monolito nel centro cittadino che evoca interminabili riunioni di partito con nuvole di fumo di sigaretta e vodka come se fosse Perrier. La camera è piccola ma più che decente; l’ora tarda mi consiglia di cenare in albergo e rimandare a domani l’esplorazione della città.
Il ristorante sembra quello di un traghetto, va avanti a perdita d’occhio in un caleidoscopio di tavoli dai colori sgargianti, fiori di plastica e una moquette così rossa che ti fa male agli occhi. In Russo, bello e rosso si dicono allo stesso modo. In Ucraino evidentemente no. Gli altoparlanti della sala sparano Dancing Queen degli Abba a mio beneficio esclusivo.
Sebbene sia l’unico ospite del ristorante, lo staff sembra comunque impegnato a fare altro. Passano alcuni minuti, siamo già arrivati al brano Money, Money Money e finalmente dalle viscere di questa sala gigantesca spunta un cameriere. Ho già scelto dalla carta quello che vorrei ordinare: dopotutto siamo a Kiev, vada quindi per il celeberrimo “Chicken Kiev”.
Boris, il cameriere (il suo badge dice ?op?c e ho fatto in tempo a leggerlo), scuote la testa come si fa con un bambino che non riesce a fare 2 x 2. Mi dice in Inglese che per il Chicken Kiev c’è un’attesa di 40 minuti e mi consiglia di scegliere qualcos’altro dal menu.
Va bene, ordino uno spiedino di carne e una birra Obolon.
La birra è sul mio tavolo dopo 5 minuti. Lo spiedino invece ci mette 40 minuti ad arrivare, che tradotto in birre fa 3 Obolon e un altro passaggio del CD degli Abba. Ho capito: ci vogliono 40 minuti per qualunque piatto, ma il Chicken Kiev questa sera non era disponibile. Boris consegna il piatto con una piroetta e si dilegua.
Venti minuti dopo, in questo mare di rosso appare una cameriera in bianco e nero. Provo a ordinare un dessert. Mi dice con tono ufficiale che devo rivolgermi al mio cameriere. Già, a trovarlo…
Prima di essere anche lei fagocitata da questa sala carnivora, mi assicura che provvederà a informare Boris della mia richiesta.
Passano 15 minuti e lo vedo apparire in fondo alla sala mentre punta deciso verso di me. “Lei voleva il conto, vero?” mi dice.
Mi arrendo e gli rispondo di si. Gli Abba stanno cantando S.O.S. e anch’io sono allo stremo delle forze.
Ho deciso, domani sera esco da questa macchina del tempo bloccata al 1979 e mi trovo un ristorante contemporaneo.
Dic 5, 2009 | The Blog
Sono di nuovo al Cairo e Mohammed, il mio amico tassista, è di nuovo la mia guida.
Gli ho annunciato che domani mattina dovremo partire per Alessandria, perché ho degli incontri in zona.
Ce la farà quel rudere della sua Fiat 1100 ad andare e tornare?
Con tono solenne, Mohammed mi promette: “Dumorroh, spesial car!”
Non riesco a tirargli fuori ulteriori dettagli. Bè, mi dico, magari è un’Audi A8.
Questa sera si mangia leggero e niente uscite notturne. Domani abbiamo deciso di partire alle 6:00, ma se rientriamo abbastanza presto voglio regalarmi una cena al Sabaya, il raffinato ristorante libanese del mio albergo.
Alle 6:00 sono in strada. Manca poco all’alba ma, a giudicare dal coro dei clacson, la città è già vibrante di attività.
Mohammed mi viene incontro con una faccia da poker e mi indica la macchina che ci porterà ad Alessandria: è la solita Fiat 1100 bianca e nera.
“Spesial car not possibul” è tutto quello che ha da dire. Maalesh, pazienza, penso io. Basta che questa vecchia carretta ci riporti a casa.
Usciamo spediti dal Cairo e cominciamo a macinare chilometri sulla Desert Road alla nostra andatura di 80-90 kmh. Il sole sta sorgendo e illumina il deserto con effetti bellissimi.
I 220 km che separano Cairo da Alessandria sono costellati di basi militari dalle mura altissime, piccole comunità agricole e baracche che vendono di tutto, dalla frutta ai pneumatici. Il resto è sabbia.
Ci fermiamo per un caffè in una specie di area di servizio. Fin qui, il viaggio è stato privo di sorprese. Il primo appuntamento di oggi è a Borg El Arab City, mezz’ora prima di Alessandria. Arriviamo in anticipo, così decidiamo di fare benzina per il ritorno.
Ad Alessandria esco dal mio ultimo colloquio poco dopo le 17:00, il tempo è buono e il traffico non particolarmente intenso. Vedo la mia cena libanese diventare sempre più probabile e provo a fare una lista dei mezzeh, gli antipasti, da ordinare.
Ma ci troviamo ancora alla periferia di Alessandria e sta facendo buio quando la Fiat 1100 comincia a ondeggiare. Abbiamo forato la gomma posteriore sinistra.
Mohammed insiste per cambiare la gomma da solo, ma io sono abbastanza esperto e in due dovremmo fare prima. Mentre il traffico ci sfiora a pochi centimetri di distanza, smontiamo il vetusto pneumatico forato e montiamo quello di scorta. È liscio come una caciotta, ma è tutto quello che c’è.
Si riparte che è buio e la Desert Road si perde nell’oscurità davanti a noi. Il rumore delle gomme sull’asfalto e le vibrazioni dell’antico taxi mi fanno quasi addormentare. È stata una giornata interessante e sono soddisfatto. Un sussulto della macchina mi fa spalancare gli occhi. Il motore comincia a perdere colpi. Sembra di andare a tre cilindri, anzi ora a due. La macchina si ferma.
Con Mohammed iniziamo ad armeggiare nel motore alla luce di una torcia elettrica morente. Smontiamo le candele. Per fortuna, la Fiat 1100 ha un motore giurassico in cui tutto è in bella vista.
Le candele sembrano in ordine, le rimontiamo e la macchina riparte.
Mentre ci domandiamo quale possa essere stata la causa del problema, la Fiat riprende a camminare a strappi. Altra sosta, altro smonta e rimonta.
Abbiamo ora il sospetto di aver fatto un pieno di benzina mista ad acqua fuori Alessandria. Ma aver individuato la causa del problema non ci aiuta. Dobbiamo arrivare al Cairo e mancano ancora 110 km.
Ho perso il conto di quante volte ci siamo dovuti fermare al lato della strada. La Fiat 1100 muore definitivamente al casello di Abu Rawash, circa mezz’ora fuori città. Le ultime volte l’abbiamo fatta partire a spinta perché la batteria era ormai a terra. Addio cena libanese, maalesh. Sto diventando fatalista anche io.
È quasi mezzanotte e decidiamo di mangiare qualcosa a un fast-food dall’altra parte della strada. Il fratello di Mohammed, tassista anche lui, è in arrivo con la sua macchina (“new car” dice Mohammed. Tutto è relativo: la macchina nuova si rivela infatti un clone della Fiat Regata fatto in Turchia.) Mentre il fratello resta a guardia della 1100, Mohammed mi accompagna in albergo e poi ritorna a trafficare sulla sua Fiat. I due finiranno di lavorarci alle 4:00, dopo aver svuotato il serbatoio e smontato il carburatore.
Ma alle 8:00, Mohammed è di nuovo in attesa davanti al mio hotel. Anche la 1100 è lì, pronta a riprendere servizio e il suo motore ronza regolare come se fosse nuovo.
Qasr al Baron (il Palazzo del Barone) a Heliopolis (Cairo).