Popolo di navigatori

Popolo di navigatori

Era l’estate del 1972 e mi imbarcavo su una vecchia nave greca nel porto di Ancona per prendere servizio come Assistente Passeggeri in quella che si sarebbe rivelata una stagione di crociere abbastanza travagliata.

La nave, di sole 5000 tonnellate, era anziana e malconcia. L’offerta di viaggi era un prodotto di “primo prezzo”, con sistemazioni spartane, alcune sotto la linea di galleggiamento della nave. Ma il pensiero di andare in crociera per 11 giorni a meno di 150.000 Lire lanciava il cuore del passeggero al di là dell’ostacolo (o del buon senso) e il successo di vendite nei tre mesi di alta stagione si rivelò notevole.

Erano i tempi in cui ad Atene si poteva ancora circolare. La sera, mentre i passeggeri andavano a vedere lo spettacolo di Sirtaki, l’equipaggio correva alla Yortì Krasioù, la Festa del Vino, nel sobborgo di Dafnì tra Atene e il Pireo, a prendersi una sbronza low cost.

A quei tempi Istanbul era una metropoli misteriosa, a cavallo tra Oriente e Occidente ma senza i ponti sul Bosforo, il primo dei quali sarebbe stato realizzato l’anno dopo. Ad ogni ingresso in porto, sul molo ci attendeva il nostro agente marittimo (sempre in abito bianco e Borsalino), che la sera portava ufficiali e staff passeggeri a cena al Kervansaray Night Club in una piccola carovana di taxi, invariabilmente vecchie auto americane degli anni 40 e 50.

Le rose e fiori finiscono qui.

Alcune cabine erano dei loculi angusti, caldi e puzzolenti, che vibravano e scricchiolavano senza sosta.
Dalle cuccette, facce imploranti chiedevano di essere spostate ai ponti superiori, ma la nave viaggiava sempre al completo.

Il vitto poteva ancora andare per i passeggeri inglesi, ma gli italiani erano in agitazione permanente. La dieta agnello e patate fritte non gli andava giù, né il contorno di pasta scotta riscuoteva troppi consensi.

A metà Agosto si guastò anche l’aria condizionata e, in un’altra memorabile occasione, ci fu un’avaria ai motori (vetuste turbine a vapore) per cui restammo un giorno all’ancora nel Golfo di Corinto in attesa dei ricambi e fummo costretti a portare a terra i passeggeri con le scialuppe di salvataggio per un’escursione estemporanea che, nelle intenzioni almeno, doveva allentare la tensione.

Peccato che qualche paranco si fosse bloccato a metà corsa lasciando alcune scialuppe appese di traverso lungo i fianchi della nave nell’ilarità generale. A qualcuno, però, deve essere passato per la mente che, in una vera situazione di emergenza, ci sarebbe stato molto meno da ridere.

Dopo venti anni esatti, nel 1992, assumevo l’incarico di Direttore Commerciale Passeggeri di una grande società marittima italiana e mi dedicavo al lancio e alla commercializzazione di nuove linee di traghetti nel Mediterraneo Occidentale.

Sebbene i miei compiti fossero legati ai mercati di provenienza del traffico passeggeri e non all’operatività delle singole navi, mi trovavo spesso a viaggiare sulle nostre rotte. Scoprii allora che, a venti anni di distanza, il rapporto degli italiani con le navi non si era evoluto.

Al momento della prenotazione, tutti si lanciavano alla ricerca della sistemazione meno cara. Saliti a bordo e presa visione della cabina interna a quattro posti, si scatenavano immediate crisi di claustrofobia.

Inutile dire che una cabina del 1972 e una degli anni ’90 erano due cose ben diverse, ma la reazione del passeggero nostrano davanti alla sistemazione più economica non cambiava. Alla Reception si assisteva regolarmente a scene di folla, con finti svenimenti e crisi cardiache comandate a orologeria.

Il nonno, che pure saliva in bici all’Abetone ogni weekend, improvvisamente accusava dolori lancinanti al petto. La nonna si strappava i capelli dicendo: “Non riesco a respirare“. I bambini, che si sarebbero divertiti anche a dormire in sala macchine, erano usati come ricatto morale all’italica maniera e ribattezzati “le creature” per maggiore effetto dirompente sugli animi dei commissari di bordo.

Inutile spiegare ai navigatori del Secondo Millennio che anche le cabine esterne, grazie all’aria condizionata, non avevano le finestre apribili. Si passava invece il tempo a rispondere di continuo a domande profonde del tipo: “Perché non fate una nave solo di cabine esterne?

A poco serviva descrivere quel tipo di nave come un vagone ferroviario lungo e stretto e dalle scarse doti marine; altrettanto inutile era ricordare che, al momento della prenotazione, l’opzione della cabina esterna era sempre presente fra le sistemazioni offerte (ma chiaramente occorreva spendere qualche soldo in più).

Mentre la nave usciva maestosa dal porto e spariva nella notte, alla Reception la corte dei miracoli vociante, tra un rantolo e una fitta, esigeva cabine esterne per tutti senza sovrapprezzo.

Da allora sono passati altri venti anni o quasi. Oggi faccio un altro mestiere ma salgo sulle navi almeno 8 volte l’anno come passeggero e mi guardo attorno divertito: finalmente non è più un problema mio.

Inutile dire che, in quarant’anni di attenta osservazione, il Popolo di Navigatori non è cambiato per niente.

Un verbo per tutte le occasioni

Un verbo per tutte le occasioni

Propongo che il verbo valutare venga radiato dalla lingua italiana.

È diventato infatti fiancheggiatore di un classico tratto del carattere nazionale: l’incapacità di prendere una decisione o di impegnarsi dando una risposta chiara.

Il bello del verbo valutare è che, avendo un tono più serio e importante di verbi analoghi come pensare o riflettere, imprime una certa ufficialità alla frase.

Espressioni come “Ci devo pensare” o “Vorrei riflettere”, che per anni erano andate benissimo, sono ormai considerate patrimonio della gente semplice, anzi sempliciotta. L’Italiano ha imparato dall’autorità che più parli complicato e più diventi autorevole.

Allo stesso modo, la risposta. “Non lo so”, un’onesta frase che ha funzionato bene per secoli, è vista ora come un’ammissione di ignoranza. Meglio quindi fare fumo con il verbo valutare. (Voci di corridoio dicono che anche il verbo ponderare stia raccogliendo forti consensi, ma riparliamone fra cinque anni.)

Vediamo ora qualche esempio:

D: Venite al mare con noi domani?

R: Stiamo valutando.(Leggi: se non ci invitano amici più simpatici, ci tocca venire con voi.)

D: Direttore, siamo a fine Luglio. Ha stabilito i giorni di chiusura aziendale in Agosto?

R: Devo ancora valutare. (Leggi: me ne ero completamente dimenticato.)

D: Scusi, lei crede in Dio?

R: Mah, lo sto valutando. (Leggi: non mi voglio sbilanciare.)

D: Comandante, perché stiamo precipitando?

R: Sto valutando la situazione.(Leggi: non ne ho la più pallida idea.)

D: Allora la compri quella moto?

R: Sto valutando. (Leggi: non ho i soldi.)

Il verbo decidere, invece, è stato ormai defenestrato a furore di popolo. Si è scoperto infatti che decidere ha una notevole connotazione di finalità, per esempio: “Ho deciso!” (cioè: non ci posso più ripensare).

Gli Italiani del terzo millennio, stressati, confusi e schizzati, sono un popolo di indecisi cronici.
Se già la scelta di una corsia sull’autostrada si rivela molto sofferta, immaginatevi una decisione vera e propria quali traumi potrà comportare!

No, valutare è il verbo giusto per chi ama parlare, ma senza impegno.

D: Cara, tu mi ami?

R: Devo valutare.

Questione di prestigio

Questione di prestigio

Ho smesso da molto tempo di leggere le recensioni di qualunque bene o servizio che siano pubblicate in Italia, sia sui giornali che sui siti Web.

Come un filtro anti-spam che riconosce al volo le parole chiave degli odiosi messaggi di posta indesiderati, anch’io ho sviluppato un sesto senso per le marchette della stampa italica, una manica di pennivendoli inverecondi pronti a cantare le lodi di qualunque cosa.

La parola che mi fa accendere la spia rossa dell’allarme-marchetta è prestigio, anche quando compare nella sua forma aggettivale prestigioso.

Quante volte l’avete letto solo oggi in qualche recensione?

Il prestigioso marchio Motom è ritornato a fregiare degli splendidi scooter…

Leggi: il marchio Motom, che risale al 1947 e che è andato prematuramente a estinguersi per mancanza di mercato/soldi/idee, è ritornato con una spudorata operazione commerciale che ha messo in circolazione scadenti trabiccoli fatti in Cina abbinandoli a un logo storico ma tanto estinto quanto l’Idrolitina.

Vacanze da sogno nel prestigioso Hotel Caccamo, due stelle, vista tangenziale, tutte camere con bagno, sottopassaggio per accedere al parcheggio. Disponibili camere insonorizzate per un modesto supplemento.

Leggi: locanda malconcia e rumorosa in posizione assolutamente da evitare a meno che non vi si guasti la macchina lì davanti alle due del mattino.

La parola prestigio viene, guarda un po’, dal latino e vuol dire originariamente “gioco di destrezza” e, in senso traslato, “illusione”. E qui la definizione “marchio prestigioso” abusata dalla stampa calzerebbe a pennello: si tratta di un gioco di prestigio in cui a essere giocato è sempre il consumatore che crede a quello che legge.

Il significato corrente che si attribuisce a “prestigio” (autorità, fascino) si avvicina molto all’utilizzo che la lingua francese ha fatto della parola latina. Fra i vari significati di prestige, oltre a quello di illusione e gioco di mano, ci sono attrazione, capacità di sedurre, di fare impressione. Anche l’inglese, che deve al francese un bel po’ dei suoi vocaboli, ha ereditato prestige ma soltanto nelle sue accezioni di reputazione raggiunta tramite il successo oppure capacità di suscitare impressione.

Ecco quindi un’arma letale nelle mani dei marchettari: il cronometro, i mocassini, il marchio storico, il motorino, il pied-à-terre in borgata, sono tutti oggetti prestigiosi i cui lati positivi non vanno nemmeno descritti. Sono misteriosamente contenuti nell’aggettivo e nessuno osa chiedere quali siano per non passare da ignorante.

D: Ma come ti è venuto in mente di comprarti quel catorcio?

R: Ma scherzi? Non lo vedi che  è un marchio prestigioso?

Ovviamente dei lati negativi, trattandosi di recensioni stampa, non si parla affatto.

Va bene informare i consumatori, ma vediamo di non esagerare e finire per raccontargli le cose come stanno…

Io e Connie

Io e Connie

Ho sempre avuto un’attrazione fatale per i mezzi di trasporto e ancora me la porto appresso.
Ricordo che da bambino mettevo in croce i miei perché mi portassero alla stazione ferroviaria, in porto o all’aeroporto. Mi guardavo intorno per ore, gli occhi come videocamere, poi a casa ridisegnavo religiosamente tutto: il locomotore marrone, caldo e impolverato, tozzo e ostile come un mezzo militare o il traghetto dalle mille lampadine accese di cui ridisegnavo il fumo nero fetido che usciva dal fumaiolo come una fila di tante e corsive.

Anni fa ritrovai un vecchio filmino girato da mio padre con la vecchia cinepresa Paillard. Nei fotogrammi bianco e nero saltellanti c’ero io su una terrazza dell’aeroporto di Ciampino mentre alle mie spalle si avvicinava al terminal un quadrimotore della TWA dal muso affusolato e dalla strana coda. Solo molti anni dopo scoprii che si chiamava Super Constellation, o “Connie” per i patiti del volo.

Questa passione per navi, treni e aerei è rimasta sempre viva in me nonostante abbia fatto più viaggi intorno al mondo, migliaia di decolli, atterraggi, attracchi, imbarchi e sbarchi. Che si trattasse di Kowloon o Bergamo, che avessi viaggiato nel 747 della Lufthansa o sul ponte inferiore della Star Line, l’emozione non è mai calata e il fascino del movimento continua ancora a catturarmi:  muoversi per non fermarsi, per conoscere, per vedere, per rivedere, gli occhi sempre spalancati come il bimbo curioso di allora. Da qualche parte in casa conservo un chiodo dei binari della Union Pacific e uno della Santa Fe raccolti negli Stati Uniti a fianco di vecchie linee dismesse. Ho imparato a pilotare un aeroplano, ho condotto barche di ogni tipo (anche una nave passeggeri tanti anni fa) ma non mi hanno mai lasciato guidare un treno.

Quante volte ho aperto gli occhi nel cuore della notte (la mia notte o la loro?) in una poltrona d’aeroplano chiedendomi: dove sono? ma specialmente: dove vado? Sale di attesa rumorose, salette VIP dall’aria rarefatta. file accaldate e disordinate a Nuova Delhi,  volo cancellato ad Anchorage, atterraggio per emergenza motore a Orlando (peccato: il film era bello ma ci hanno fatti scendere), champagne vietato sulla Pakistan, troppo champagne sulla Lufthansa, panino sulla Easyjet, gallette e facce stantie sull’Alitalia.

Viaggiare tanto è come scaricare il contachilometri  dell’automobile: perdi fino a un anno per ogni viaggio che fai. Parti che ne hai 50 e torni che ne hai 49 e sei più curioso di prima. Vivi in una dimensione parallela fatta di corse di decollo e permanenze a 12 km di altezza e a meno 50° C di temperatura, ibernato per ore e scongelato quando arrivi.

“Signori buongiorno, siamo atterrati a Mumbai, la temperatura è di 38 gradi”. Bene, ora si va a lavorare e a girare tutto il giorno come una dinamo per guadagnarci finalmente una bella birra Kingfisher imperlata di condensa alle 18:00. Ma è vita questa? Sissignore, questa è vita!

Severamente ridicolo

Severamente ridicolo

Il rapporto tra il cittadino e l’autorità dipende molto dal tono di voce con cui quest’ultima parla e la sfiducia dell’individuo nei confronti del sistema è proporzionale alla “distanza” percepita.

Paesi come il nostro tendono a stabilire una notevole distanza tra il cittadino e l’autorità. Uno dei metodi preferiti è quello di parlare in maniera complicata, di intimorire con la complessità del messaggio anche quando si potrebbero utilizzare termini semplici.

Un esempio banale?

SNC00036

Guardate come viene definito un rallentatore su una strada dell’hinterland milanese. Variazione altimetrica.

Possibile che non ci fosse un modo più semplice di descriverlo? Oppure lasciare che l’icona parlasse da sola? Dimenticando per un attimo la folta popolazione extra- comunitaria, la cui conoscenza dell’italiano è tutta da verificare, anche il cittadino medio che è nato ed è andato a scuola in Italia deve pensarci un attimo per capire il significato di questo cartello. Perché usare un termine altisonante (e vagamente fuori luogo: chi gira con l’altimetro in macchina?) invece di una semplice descrizione, come per esempio gobba.

No, l’autorità teme di non essere presa sul serio se parla in termini semplici. È un concetto vecchio di secoli ma funziona sempre. Parlare difficile, alzare la voce per avere il rispetto dei sottoposti. Dopotutto siamo il paese del “severamente vietato”, perché vietato non basta.

Guardate lo stesso rallentatore come viene segnalato in altri Paesi. Negli Stati Uniti si chiama BUMP, un termine imitativo che non lascia spazio a più interpretazioni. Perché chiamarlo in maniera differente e più complicata? Come la maggior parte dei segnali stradali americani, anche questo è a prova di stupido (basta che lo stupido sappia leggere).

Bump

Ma l’autorità in Italia dimostra di preferire il linguaggio complesso della burocrazia. E per autorità non intendo soltanto il funzionarietto che si occupa di segnaletica stradale, ma anche chi stila le procedure di sicurezza destinate agli ospiti degli alberghi, le istruzioni per le uscite di emergenza nei mezzi pubblici (aerei compresi) e tutte quelle comunicazioni farcite di termini pseudo-tecnici che sembrano più sottolineare la propria competenza che trasmettere contenuti essenziali in situazioni di pericolo. Vediamo quindi che anche il privato scimmiotta il linguaggio delle circolari ministeriali, dei decreti, dei regolamenti di applicazione per mutuarne autorità e importanza. Perché la sicurezza è una cosa seria! Un linguaggio semplice che anche un bambino capirebbe è considerato riduttivo.

Qualche giorno fa, nella cabina di un traghetto, mi piegavo dal ridere leggendo le istruzioni plurilingue per l’uso della doccia. “Controllare che la propria condizione fisica sia buona prima di entrare nella doccia“. Che cosa devo fare, mi devo misurare la pressione e fare un elettrocardiogramma prima di aprire l’acqua? Non basterebbe dire: attenzione a non perdere l’equilibrio? Ce lo vedete uno che soffre di sbalzi di pressione a mettersi sotto la doccia in un mare forza 6?

Un tempo il popolo analfabeta si rivolgeva al cerusico e al notaro per farsi spiegare le complessità della medicina e della legge. Oggi, anche se il popolo sa viaggiare in Internet e comunicare in Wi-Fi, l’autorità parla ancora con la stessa voce accigliata e inefficace.