Tenjooberrymuds

Tenjooberrymuds

Oggi alzare il telefono e parlare con il customer service di un’azienda multinazionale o con il “room service” di un albergo può rappresentare un’esperienza illuminante, anche e specialmente per chi credeva di avere una conoscenza perfetta della lingua inglese.

In questo dialogo, che mi è arrivato via Internet, dovete immaginare di essere l’ospite dell’hotel  e cercare di capire che cosa dice la voce dall’altra parte del filo. Vi assicuro che, giunti alla fine della conversazione, non avrete alcun problema a decifrare la parola del titolo (Tenjooberrymuds).

Room Service : “Morrin. Roon sirbees.”

Guest : “Sorry, I thought I dialed room-service.”

Room Service: “Rye . Roon sirbees…morrin! Joowish to oddor sunteen???”

Guest: “Uh….. Yes, I’d like to order bacon and eggs..”

Room Service: “Ow July den?”

Guest: “…..What??”

Room Service: “Ow July den?!?… Pryed, boyud, poochd?”

Guest: “Oh, the eggs! How do I like them? Sorry.. Scrambled, please.”

Room Service: “Ow July dee baykem? Crease?”

Guest: “Crisp will be fine.”

Room Service: “Hokay. An Sahn toes?”

Guest: “What?”

Room Service: “An toes. July Sahn toes?”

Guest: “I… Don’t think so.”

RoomService: “No? Judo wan sahn toes???”

Guest: “I feel really bad about this, but I don’t know what ‘judo wan sahn toes’ means.”

RoomService: “Toes! Toes!…Why Joo don Juan toes? Ow bow Anglish moppin we bodder?”

Guest: “Oh, English muffin!!! I’ve got it! You were saying ‘toast’…   Fine…Yes, an English muffin will be fine.”

RoomService: “We bodder?”

Guest: “No, just put the bodder on the side.”

RoomService: “Wad?!?”

Guest: “I mean butter… Just put the butter on the side.”

RoomService: “Copy?”

Guest: “Excuse me?”

RoomService: “Copy…tea..meel?”

Guest: “Yes. Coffee, please… And that’s everything.”

RoomService: “One Minnie. Scramah egg, crease baykem, Anglish moppin, we bodder on sigh and copy …. Rye ??”

Guest: “Whatever you say..”

RoomService: “Tenjooberrymuds.”

Guest: “You’re welcome”

PS: Ve l’avevo detto che alla fine avreste capito che cosa vuol dire ‘Tenjooberrymuds’ ed è così, non è vero?

Pensieri di cane

Pensieri di cane

Spesso mentre mia moglie ed io siamo a tavola. il nostro cane Samantha (per gli amici Sam) salta su una sedia vuota, si siede con una certa eleganza  e ci guarda fissi negli occhi.

Non ho dubbi che la sua unica intenzione sia sorvegliare i piatti in tavola nella speranza di rimediare qualcosa di buono, la roba sfiziosa che mangiano gli umani, sapete, non i soliti croccantini.

Eppure ci sono delle volte che, avendola seduta di fronte a me, vedo quegli occhi senza fondo che mi fissano intensi e mi domando che cosa stia pensando.

Ma i cani pensano? E se pensano, la domanda veramente importante è a che cosa pensano?

Preoccupazioni non ne hanno e ogni giorno è un nuovo inizio: un nuovo periodo di tempo che va vissuto sulla base dell’istinto, dei ricordi accumulati e con l’aiuto di udito, odorato e vista ma che, in sostanza, è un nuovo giro di giostra scandito solo dagli appuntamenti alimentari e dai bisogni fisiologici.

Come tutti gli animali, il cane è una macchina programmata per sopravvivere. I suoi bisogni sono essenziali e non ci sono tentennamenti né incertezze. A volte però sento Sam emettere dei sospiri profondi e, nella mia fissazione di umanizzarla ad ogni costo, la immagino sconsolata, in ansia per il suo futuro.

A volte Sam sogna. All’improvviso, nel mezzo di un sonno profondo, comincia ad agitarsi, a scalciare. Poi si tranquillizza e riprende a dormire.

Che cosa sognano i cani? Voglio dire, che cosa sognano a parte delle fonti inesauribili di roba da mangiare?

Che cosa può creare loro degli incubi? Sarà il pensiero di aprire gli occhi e non trovarsi più in una casa riscaldata e piena di posti dove dormire? Il pensiero di avere all’improvviso dei padroni più severi di noi? Il ricordo di un enorme cane assassino che li ha spaventati?

Ho appena letto che le persone con quozienti intellettivi più alti sognano di più degli altri. Potrei desumerne che Sam è un cane molto intelligente (più di me di sicuro, visto che sogno veramente poco).
Oppure la cosa non vale per i cani?

Mi sembrerebbe una vigliaccata. Come la storia che noi abbiamo l’anima e loro no.

Ma ci stiamo allontanando dalla domanda di partenza: ma allora, i cani pensano?

Come fare a scoprirlo? Non so neanche se i ministri pensano (a giudicare dai fatti si direbbe in realtà che non gli riesca), figuratevi se mi riesce di dimostrare che i cani ne sono capaci.

Sarebbe un bel colpo però e credo che a Sam farebbe molto piacere essere considerata un’intellettuale.

E vola vola vola

E vola vola vola

Viaggio lampo in Germania. Alle 9.20 del mattino già tocco terra a Stoccarda dopo un rapido volo sopra le Alpi che, alla luce del sole mattutino, sembrano delle meringhe giganti.

L’aereo è un Fokker 100 della consociata di Lufthansa, un aeromobile abbastanza stagionato ma in condizioni da concorso nonostante gli almeno 15 anni.

Durante il volo getto un’occhiata al giornale. In mezzo alle non-notizie politiche italiane (il tale ammonisce, l’altro controbatte ma nel teatrino nulla cambia) compare un articolo sull’attuale situazione dei maggiori costruttori di aerei commerciali dopo un paio di clamorosi mancati incidenti dovuti a problemi tecnici.

Lo scriba non sa resistere alla tentazione di scadere nel sensazionale. L’articolo si intitola I giganti dell’aria sono deboli, o qualche altra banalità del genere, ed esordisce con il commento di un passeggero dell’ormai celebre Airbus A380 Qantas che racconta terrorizzato l’emergenza al motore di qualche giorno fa. Senza voler sminuire la gravità del fatto, basta intervistare qualunque passeggero dopo il più innocuo dei vuoti d’aria e i commenti saranno invariabilmente melodrammatici.” Ho creduto di morire”; “Mi sono detto questa volta siamo spacciati”; “Ho stretto la mano di mia figlia e ho chiuso gli occhi pregando”, “È stato un miracolo” e altre mistiche rivelazioni.

È un fatto noto che i mammiferi non sappiano volare. Quasi tutti vanno in aereo, ma dietro quella maschera di studiata indifferenza si nasconde la paura di chi non è nato con le ali eppure deve alzarsi in volo.

Il cronista di mestiere si arrampica e fa leva su questo timore innato tessendo una trama di tecnologie rischiose, di aerei esageratamente lussuosi (ma forse si confonde con le navi da crociera) e delle colpe degli avidi fabbricanti, lanciati a sua detta in un’assurda gara per il primato a tutto discapito di chi vola.

E allora, a giustificare la sua retorica complottista, eccolo collegare i puntini di un disegno che esiste solo nella sua testa. I ritardi del nuovo programma Boeing 787 Dreamliner sono messi in collegamento con un’avaria motore di un vecchio Boeing 767. Stiamo parlando di due generazioni diverse, il 787 è un aereo del futuro che deve ancora entrare in servizio. Il 767 è uscito per la prima volta dagli hangar Boeing nell’Agosto 1981. Lo so perché quel giorno indimenticabile c’ero anche io a Seattle e ne conservo un ricordo magico.

Che senso ha dipingere un quadro tanto catastrofico?

Tutti sappiamo che la paura vende più copie dei messaggi rassicuranti. La gente quindi divorerà l’articolo credendo a ogni parola. Quando si fa leva sui timori atavici l’attenzione del pubblico è massima.

L’italiano medio, confortato nella sua profonda convinzione che volare sia un enorme rischio, salirà oggi in auto e si lancerà a fare lo slalom in autostrada convinto invece della sua automobilistica immortalità.

Ancora India

Ancora India

Eccomi di nuovo a parlare di India.

Questa volta non si tratta di reminiscenze lavorative in quel Paese ma di un corso di comunicazione interculturale che sto preparando per un’azienda italiana.

Un’opportunità commerciale ha portato questa società a interagire strettamente con un partner indiano operante nel mondo dell’informatica e a impostare con esso un intenso rapporto sviluppato principalmente per via elettronica.

Ecco quindi delinearsi una modalità di comunicazione affidata principalmente alla parola scritta e ai dati senza il beneficio del dialogo faccia a faccia, che quasi sempre facilita i rapporti interpersonali.

In queste comunicazioni istantanee ma a distanza entrano in gioco fenomeni quali la differenza oraria, la possibilità di incomprensione sui termini nella lingua franca (l’inglese ovviamente) utilizzati in maniera diversa dai due interlocutori e i problemi legati a una scarsa fiducia reciproca, che possono nascere nei rapporti a distanza.

Il tutto appoggiato sulla tradizionale base della relazione committente/prestatore di servizi che presenta già da sempre una serie di fattori critici.

Altri problemi emergeranno di sicuro durante il corso, che si prospetta quindi particolarmente interessante.

Il mondo dell’informatica, con la sua straordinaria capacità di trasmettere il lavoro via Internet e non via container, presenta una serie di aree grigie e criticità potenziali, molte delle quali sono ancora da esplorare, considerato che solo da pochi anni si sono intensificati i fenomeni di  offshoring con il Paese asiatico.

Se nelle collaborazioni tra aziende manifatturiere i tempi rimangono piuttosto lunghi e legati principalmente al traffico marittimo (come avveniva nei secoli scorsi), qui non si parla nemmeno di tempi.

I miei dati trasferiti sul server del partner indiano alle 18:00 ora italiana saranno immediatamente disponibili quando apriranno i suoi uffici domani mattina, che per me sarà ancora il cuore della notte. Analogamente, la mail con i suoi commenti inviatami mentre ancora dormivo sarà lì ad attendermi sul mio PC al momento di iniziare il lavoro.

Eppure, questa eccezionale facilità di scambiarsi i dati può dare luogo a incomprensioni, tensioni e complicazioni. Occorre aggiungere un elemento di umanità all’equazione.

Quei viaggi massacranti verso Est, gli arrivi caotici nel cuore della notte, il tuffo nell’aria calda e umida dagli odori più diversi che sono stati alla base del mio lavoro per 25 anni servivano anche a quello, a stabilire un rapporto umano con il partner. Su quella base lo scambio di corrispondenza, prima per fax e poi per e-mail, poteva svolgersi in maniera più serena e trasparente.

Il teatrino

Il teatrino

Il mondo oggi è una gabbia di vetro. Secoli fa, sbarrate le frontiere e cacciati gli ospiti indesiderati, nulla traspariva all’esterno di un Paese chiuso nel suo guscio. In tempi più recenti, nel XX Secolo, la censura sulle emissioni radiotelevisive e il bavaglio alla stampa hanno sortito effetti pressoché identici in molti Paesi retti da regimi totalitari.

Oggi però, l’accesso generalizzato a una vasta gamma di mezzi di comunicazione (pensate ai messaggi su Twitter durante le recenti rivolte di piazza in Iran) permette alla gente comune di superare le restrizioni dei regimi totalitari.

A maggior ragione, Paesi dalle frontiere aperte e che trasmettono i loro programmi televisivi via satellite proiettano all’esterno un’immagine di sé che, all’osservatore attento, ne rivela il carattere nazionale e le regole di comportamento in essere al loro interno.

Quanto segue è apparso su un quotidiano canadese e riguarda l’immagine dell’Italia percepita in quel Paese. Fin qui, niente di nuovo. Siamo tristemente abituati a leggere di noi su giornali stranieri. A volte si tratta di analisi precise e imparziali, altre volte è solo un imbecille impreparato che fa un collage di luoghi comuni. Ma non cambia nulla, basta gettare ridicolo sull’Italia per essere creduti da molti.

Questa volta però, a parlare di noi è un italiano: un giornalista di origine istriana che vive a Montreal da quarant’anni e scrive per un giornale locale in lingua italiana. Si può dare peso o meno alle sue parole, si possono condividere o deplorare le sue argomentazioni e conclusioni. È innegabile però che la sua analisi colga spesso nel segno.

Attori e spettatori nel teatrino Italia

Non è facile dare un ritratto sintetico dell’Italia così barocca e confusionaria con la sua quotidiana isteria mediatica, il moralismo, le denunce, l’allarmismo, il catastrofismo, i fatti di cronaca nera ingigantiti all’eccesso, le nuove sentenze che ribaltano le precedenti, la dietrologia ad ogni costo, il riesumare all’infinito i fatti del passato senza mai girare pagina, l’antifascismo – a babbo morto – come professione e carriera, le polemiche, l’urlare… Un punto solo vorrei mettere in evidenza: questo teatrino non avviene a danno e a spese degli italiani per chissà quale disegno diabolico di forze oscure, come invece tanti in Italia sostengono. Sono italiani, infatti, sia gli attori sia gli avidi spettatori di questo grottesco teatrino delle urla e dell’isteria. Basti vedere cos’è una discussione tra italiani anche in TV: mai pacata, sempre esagerata. Parlano, anzi urlano tutti insieme, perché tutti vogliono aver ragione.

Nella penisola, tutti – o quasi – hanno il culto della furbizia e predicano bene e razzolano male. Sono portati all’indisciplina… Fanno il tifo contro o pro Berlusconi. Sono indisciplinati e non rispettano il segnale stradale di stop. Per molti di loro l’allacciarsi la cintura è un vero atto contro natura. Ma contemporaneamente tutti catoneggiano, denunciando le ingiustizie del pianeta Terra, in genere, e in particolare l’indisciplina, la furbizia e l’immoralità degli altri italiani…

E che dire dei grotteschi programmi di discussione in TV, sorta di Bar dello Sport nazionale, dove tutti vogliono aver ragione? Questi programmi condotti da imbonitori da fiera con laurea, che accusano e moralizzano tra cosce, tette e chiappe di false bionde discinte, sono seguiti avidamente dagli italiani, i quali – secondo me – dovrebbero invece tirare la catena su questa televisione che li sputtana attraverso il globo. Ma, purtroppo, gli italiani sono costituzionalmente incapaci di avvertirne il ridicolo, a causa di una carenza atavica di dignità nazionale.

Claudio Antonelli