Mar 17, 2011 | The Blog
Oggi un amico mi ha girato una mail che mi ha veramente divertito.
E siccome preferisco divertirmi in compagnia, ve la rigiro..
Quando si vede uno Space Shuttle sulla rampa di lancio, si notano i due booster attaccati al serbatoio principale; questi due propulsori sono due razzi a combustibile solido o SRB. Gli SRB o Solid Rocket Booster sono stati costruiti dalla Thiokol nei propri stabilimenti situati in Utah. Gli ingegneri che li hanno progettati avrebbero voluto farli un po’ più grossi, ma gli SRB dovevano essere trasportati in treno dalla fabbrica alla rampa di lancio.
Visto che la linea ferroviaria che collega lo Utah alla base di lancio attraversa nel suo percorso alcune gallerie, i razzi dovevano essere costruiti in modo da passarci dentro.
I tunnel ferroviari sono poco più larghi di una carrozza ferroviaria, la cui larghezza è a sua volta dettata dallo scartamento dei binari (distanza tra le due rotaie).
Lo scartamento standard degli Stati Uniti è di 4 piedi e 8,5 pollici.
(E’ la stessa misura europea solo che noi la esprimiamo in millimetri).
A prima vista questa misura sembra alquanto strana.
Perché è stata scelta?
Perché questa era la misura utilizzata in Inghilterra, e perché le ferrovie americane sono state costruite da progettisti inglesi.
Ma perché gli Inglesi le costruivano in questo modo?
Perché le prime ferrovie furono costruite dalle stesse persone che, prima dell’avvento delle strade ferrate, costruivano le linee tranviarie usando lo stesso scartamento.
Ma perché i costruttori inglesi usavano questo scartamento? Perché quelli che costruivano le carrozze dei tram utilizzavano gli stessi componenti e gli stessi strumenti che venivano usati dai costruttori di carrozze stradali, e quindi gli assi avevano la stessa larghezza e lo stesso scartamento.
Bene! Ma allora perché le carrozze utilizzavano questa curiosa misura per la larghezza dell’asse? Perché, se avessero usato un’altra distanza, le ruote delle carrozze si sarebbero spezzate percorrendo alcune vecchie e consunte strade inglesi, in quanto questa era la misura dei solchi scavati dalle ruote sul fondo stradale.
Ma chi aveva provocato questi solchi sulle vecchie strade dell’Inghilterra? Le prime strade di collegamento costruite in Europa (e Inghilterra) furono quelle costruite dall’Impero Romano per le proprie legioni.
Prima di allora non vi erano strade che percorrevano lunghe distanze.
E i solchi sulle strade? I carri da guerra romani produssero i primi solchi sulle strade, solchi a cui poi tutti gli altri veicoli dovettero adeguarsi per evitare di rompere le ruote.
Essendo i carri da guerra costruiti tutti per conto dell’esercito dell’Impero Romano, essi avevano tutti la stessa distanza tra le ruote.
In conclusione, lo scartamento standard di 4 piedi e 8,5 pollici deriva dalle specifiche originarie dei carri da guerra dell’Impero Romano ed è la misura necessaria a contenere il culo di due cavalli da guerra.
MORALE
1. La prossima volta che ti capitano in mano delle specifiche tecniche e ti stupisci per il fatto che le misure sembrano stabilite con il didietro, magari ci hai proprio indovinato;
2. La misura standard utilizzata nel più avanzato mezzo di trasporto progettato negli ultimi decenni (i booster dello Shuttle) è stata determinata oltre due millenni or sono prendendo a modello due sederi di cavallo!
C’è da riflettere…
Mar 8, 2011 | The Blog
Ultimi giorni di Libia con il Colonnello ancora al timone.
L’improvvisa concatenazione di moti popolari nel Nord Africa ci avrà anche sorpreso in questi ultimi mesi, ma basta gettare un rapido sguardo al passato e risulta chiaro che nulla dura molto a lungo in questa parte del mondo, tanto meno i sedicenti Re dei Re d’Africa.
A Tripoli c’è senz’altro qualcuno che sta già facendo incetta di vernici per esterni, nella ragionevole aspettativa che il colore verde del regime ormai in crisi terminale venga sostituito da un altro colore.
La Piazza Verde voluta da Gheddafi si chiamava Piazza Indipendenza dalla fine del regime coloniale italiano fino al 1969. Prima ancora era stata Piazza Italia. Tra qualche mese le persiane che si affacciano su di essa avranno un altro colore, il colore ufficiale della nuova Libia. Quale esso sia non è dato sapere. Di sicuro si può dire che il prezzo dello smalto verde è crollato ai minimi storici.
Intanto qualcun altro avrà pensato a rimettere in funzione il vecchio Maggiolino Volkswagen color turchese che è da anni esposto al Museo della Jamahriya perché di proprietà del Cap. Muammar Gheddafi ai tempi del suo colpo di stato. In Libia non si butta niente, una batteria seminuova, un cambio d’olio e quattro gomme ricoperte e il Maggiolino riprenderà a circolare per le vie di Tripoli. Quanto al suo proprietario (sono sicuro che la macchina è ancora intestata a Lui) non sarei troppo sicuro di un riciclaggio. Finirà probabilmente “rottamato”, ma rottamato di lusso in qualche Paese compiacente che aprirà le braccia a lui e ai miliardi che ha accantonato in 40 anni di regime.
Aria di smobilitazione anche fra le amazzoni del colonnello, le 40 soldatesse della sua guardia del corpo.
Non si vedono più attorno al Leader Fraterno già da qualche tempo. La stampa italiana, che non si lascia sfuggire una banalità se questa può solleticare le masse, si interroga sulla sorte delle 40 guardie del corpo, che definisce “bellissime”, “curate e ben truccate”.
Non è da escludere che ce le troveremo a breve in qualche spettacolo televisivo.
Anche in Italia non si butta niente, dai Savoia fino alle vecchie carampane dei telegiornali fino (e soprattutto) alla classe politica.
La cultura nazionale vuole che, una volta conquistato il “posto”, nessuno te lo possa più togliere.
E allora viva la faccia della Tunisia, dell’Egitto e della Libia. Almeno loro ci stanno provando.
Gen 22, 2011 | The Blog
Come da copione, il dittatore tunisino esce di scena con un carico d’oro che la stampa calcola in una tonnellata e mezza, a spanne 45 milioni di euro.
A suo tempo, il buon Saddam Hussein aveva accumulato una quantità d’oro non precisata e che ha dato adito negli anni alla nascita di varie leggende, speculazioni e perfino film di Hollywood. “L’oro di Saddam” è quasi diventato l’equivalente moderno del tesoro affondato con qualche antico galeone al largo del Nuovo Mondo.
Che cosa fanno intanto i tiranni rimasti? Credono anch’essi nel risparmio, nel gruzzoletto messo da parte e che un giorno servirà a integrare la pensioncina da Leader Fraterno o Padre della Patria?
Poco si sa sui piani di accumulo dell’uomo forte egiziano, Mubarak. In Egitto tutti ne parlano male, ma lo fanno bisbigliando perché i servizi segreti Mukhabarat hanno orecchie dappertutto. Il giovanotto (classe 1923) non sembra contemplare la pensione e già si sono diffuse a varie riprese voci sulla sua morte.
Se Hosni ha intenzione di andare a vivere a Dubai con un cargo pieno di oro, mummie e pezzi di piramidi farà bene a sbrigarsi.
Al confronto Gheddafi (classe 1942) è un giovane virgulto. Ha preso il potere nel 1969 e, se da una parte la sua carriera militare è finita a colonnello, si può permettere di fare lo shampoo ai generali perché lui è il Leader della Rivoluzione.
Difficile dire se il colonnello stia accumulando lingotti sotto la tenda. Di sicuro il suo gruzzolo risiede nelle banche svizzere. Sarà meno pittoresco dell’immagine dell’oro chiuso a chiave in un forziere ma probabilmente più sicuro.
Come faccio a saperlo? Anni fa lavoravo per un’azienda che aveva clienti in Libia. Questi erano una cooperativa di piccoli industriali che compravano in Italia tramite un emissario, naturalmente approvato (anzi imposto) dal regime. Il plenipotenziario arrivava da noi con valigie piene di dollari USA in contanti (per comprare i quali il colonnello concedeva un tasso di cambio agevolato) e acquistava il prodotto da spedire in Libia. Parte della sua commissione la ritirava in contanti, un’altra parte andava pagata su un conto svizzero di Mr. G, che di fatto era suo socio.
Non è impensabile che lo stesso modus operandi sia stato adottato per acquisti ufficiali di altri beni Made in Italy, dagli elicotteri alle macchine operatrici.
Anche Il Leader Fraterno, un domani che i fatti della vicina Tunisia dovessero contagiare la popolazione libica, avrebbe sicuramente abbastanza soldi da parte per vivere una vecchiaia serena.
E questo, inutile dirlo, mi conforta parecchio.
Gen 1, 2011 | The Blog
Un corso sulla comunicazione multiculturale incentrato sull’India e da poco concluso mi ha visto discutere con degli specialisti informatici italiani dei problemi legati alla collaborazione con un partner indiano in progetti di sviluppo software.
Che l’India sia un mercato dall’enorme potenziale e una grande opportunità per le imprese occidentali in cerca di partner non è una novità. Già da molti anni numerose aziende occidentali hanno iniziato a trasferire in India parte delle loro attività di “back office”; le compagnie aeree furono tra le prime a muoversi, delegando a partner o consociate indiane la contabilità dei tagliandi dei biglietti.
Da allora il settore del BPO (Business Process Outsourcing) si è sviluppato fino a diventare un’industria da ben oltre 10 miliardi di dollari USA l’anno e la sua crescita continua. Le notizie di stampa e le statistiche vanno però lette con un minimo di cautela.
Ci sono pertanto alcuni punti che vanno interpretati in maniera realistica.
- L’India ha 40 milioni di laureati, più dell’intera popolazione della Polonia.
In realtà, questo corrisponde a una percentuale del 3,3% della popolazione e non basta a soddisfare le richieste delle aziende. I neolaureati sono 3 milioni l’anno, ancora una goccia nel mare (lo 0,25% della popolazione).
- L’India ha università prestigiose e istituti tecnici di livello mondiale.
Ma la maggioranza degli studenti indiani (ci sono 250 milioni di giovani tra i 15 e i 25 anni) non ha accesso a questi istituti di altissimo livello. La sfida del governo indiano è portare un’istruzione qualificata a tutte queste giovani risorse, ma ci vorranno degli anni per vedere i primi risultati.
- Nel 2025 un lavoratore su quattro al mondo sarà indiano.
Il problema è il disallineamento tra istruzione, domanda e offerta. Il potenziale umano esiste dove mancano le scuole, i lavoratori qualificati ci sono dove mancano le industrie, le competenze della forza lavoro non corrispondono alle esigenze delle aziende locali. Tutto questo è anche legato alla carenza di infrastrutture in India e alla scarsa mobilità della forza lavoro sul territorio.
- In India 300 milioni di persone parlano inglese.
Si tratta comunque di meno di un quarto della popolazione e resta da dimostrare come e dove il livello della lingua corrisponda alle esigenze delle aziende internazionali.
Insomma, la storia di successo del BPO in India non è priva di aspetti critici e di grosse difficoltà in alcune aree. Se è vero che i settori trainanti dell’IT e della computer animation attraggono le migliori risorse, avviene anche che le restanti attività debbano accontentarsi di risorse umane dalla preparazione scolastica e professionale meno che ottimali.
Quello del BPO rimane tuttavia un movimento epocale, come le storiche migrazioni nel passato dell’India. Solo che questa volta è il lavoro a emigrare in India e non più i suoi abitanti a lasciare il Paese.
Dic 24, 2010 | The Blog
C‘è una cosa che non faccio mai quando sono in viaggio fuori dell’Italia: mangiare in un ristorante italiano.
Viaggiare, almeno per me, è l’occasione di calarsi in una realtà e una cultura differenti. Andare a mangiare italiano è come una resa definitiva, la rinuncia a scoprire che cosa c’è di buono (o meno buono) sulla piazza locale.
Come esempio penso all’Inghilterra, invece di ricorrere alle solite immagini scontate ( e spesso infondate) connesse al cibo orientale.
L’Inghilterra è uno di quei luoghi in cui la tradizione culinaria locale, piatta e sciatta, non mi attira per niente ed è per fortuna poco rappresentata in termini di ristoranti. Avendo anche abitato in quell’isola per degli anni, gli unici ricordi di pasti memorabili sono legati a spettacolari ristoranti etnici: cinesi, tailandesi, vietnamiti e specialmente indiani, che sono a tutti gli effetti il meglio della cucina britannica e furono senza dubbio la mia salvezza. Poche le visite a ristoranti italiani e tutte al seguito di inglesi che credevano di farmi contento.
Anche in Germania, Paese che frequento da quasi 40 anni, le mie visite al ristorante italiano si contano sulle dita di una mano e sono legate alla scelta di altri. Un mio cliente tedesco in Franconia mi ha portato un paio di volte al suo ristorante preferito, un locale chiamato Bella Napoli con le tovaglie a quadretti, il fiasco di vino rosso in mezzo al tavolo e le pareti affrescate in maniera oscena con Vesuvi fumanti e barche di pescatori a riva.
I camerieri dall’aria saccente parlavano un tedesco sgangherato inframmezzato dalla parola signOre, con un’enfasi esagerata sulla O tanto per dare più colore locale all’esperienza culinaria. Il mangiare era mediocre, il conto salato e il servizio fin troppo untuoso. Mai più.
Anche dopo permanenze piuttosto lunghe in Paesi dalla cucina esotica, il pensiero di rifugiarmi in un ristorante italiano (o peggio ancora in uno dal nome italiano inventato per ragioni di marketing) non mi è mai passato per la testa.
Qualche anno fa mi sono ritrovato a trascorrere quasi un mese in Cina. Nonostante la cucina cinese sia una di quelle che preferisco, alla terza settimana cominciavo ad avere voglia di mangiare qualcosa di diverso.
Per fortuna mi trovavo a Hong Kong e una delle maggiori attrattive di quel posto straordinario è la possibilità di scegliere tra tutte le cucine del mondo, dal bistrot francese al ristorante tedesco fino a quello ucraino.
Davanti a tanta scelta, optai per un ristorante americano, il Dan Ryan Chicago Grill a Tsim Sha Tsui. L’atmosfera è quella di un locale americano degli anni 40, le bistecche arrivano in aereo dagli USA e anche le porzioni sono americane.
Potrà anche sembrare un’esperienza artificiale, come cenare al poco distante Hard Rock Café, ma dopo tre settimane di cucina cinese autentica mi era presa voglia di una bistecca come si deve e di un locale meno caotico del tipico ristorante cinese, che almeno in Cina ha spesso le dimensioni di una stazione ferroviaria.
E così, nonostante la presenza a Hong Kong di locali italiani molto quotati (e anche molto cari), l’idea di mangiare gli spaghetti allo scoglio e ascoltare le canzonette napoletane non mi passò nemmeno per la testa.