Risate amare

Risate amare

Da qualche giorno, mezza Italia ride per la pessima figura fatta dall’Università di Firenze e dal Ministero dell’Istruzione con la pubblicazione nel Web di un bando per un assegno di ricerca. Il tema era la tracciabilità della filiera del latte in Toscana. Il titolo “Dalla pecora al pecorino” (già avvincente in italiano) diventava irresistibile in inglese (“From sheep to Doggy Style”), dove il punto d’arrivo non è più il noto formaggio ma una posizione sessuale in cui il termine pecorino diventa femminile.
Potenza del software di traduzione.
Ma il traduttore automatico è come il pilota automatico degli aerei. Non può (ancora) sostituire del tutto gli umani e necessita della loro supervisione. A maggior ragione (come hanno fatto ben notare decine di voci nella Rete) la cosa è intollerabile se il sito che pubblica questa bestialità è nientemeno che il Ministero responsabile per l’istruzione.
In un Paese diverso dal nostro sarebbero rotolate delle teste (ricordate l’espressione inglese “Heads will roll”?), ma qui da noi non c’è pericolo. Il posto al Ministero o all’Università fiorentina è salvo, nonostante l’imbarazzo e il ridicolo scatenati. Qui da noi il posto di lavoro si difende non con la qualità e la professionalità del lavoro stesso ma con qualche granitico articolo di legge.

Peccato, perché di gente competente in grado di sostituire i cialtroni ce n’è tanta e molta è a spasso. Il termine meritocrazia, che l’italiano ripete come un mantra, è un’astrazione, un’utopia che tanti invocano ma nessuno vuole realmente, non certo quando rischia di intaccare i propri interessi o di mettere a nudo la propria incapacità.
Il garantismo italico a tutela del cialtrone ha un pesante rovescio della medaglia: la frustrazione di chi sarebbe in grado di fare meglio quel lavoro e lo scadimento generale del livelli di competenza e di servizio nell’intero sistema-Paese.

La comunicazione e le lingue sono parte integrante del mio lavoro e sono per questo particolarmente sensibile agli scempi ai quali assisto di continuo.
Alla fine dello scorso anno sono capitato sul sito Web di una ditta italiana che ha acquistato i diritti di distribuzione di un marchio americano noto nel mondo dell’abbigliamento protettivo per le forze dell’ordine.
Il sito, pretenzioso e di scomoda navigazione, offriva una scelta di più lingue straniere, tutte invariabilmente costellate di errori macroscopici. Ho segnalato alla ditta in questione la palese contraddizione tra un marchio globale e un sito maccheronico e mi è stato chiesto quanto sarebbe costato rivedere l’intero sito dal punto di vista dei testi. Alla richiesta di ulteriori informazioni per poter quantificare il lavoro non c’è stata più risposta da parte loro.
Oggi il sito della ditta offre solo la scelta tra italiano e inglese, ma basta un rapido sguardo all’inglese per accorgersi della scarsa competenza del traduttore e degli scempi linguistici che ha commesso.

Ma non basta. Per Natale ho ricevuto una mail di auguri da una sedicente organizzazione internazionale (che chiameremo John Smith International) operante nel settore delle Risorse Umane. Sia il messaggio di auguri che l’invito a partecipare a un sondaggio sulle retribuzioni contenevano più  errori d’inglese veramente macroscopici.
Ho ricambiato gli auguri e (a titolo di regalo natalizio) ho segnalato loro alcuni degli errori rilevati. Non ho ricevuto alcuna risposta (ma non me l’aspettavo) e per diverse settimane ancora gli errori facevano bella mostra sul sito di quell’azienda.

A volte colgo quasi il fastidio dell’impresa italiana a presentarsi nel Web (e nel mondo) con le carte in regola a livello di comunicazione, il che significa realizzare un sito dignitoso a livello di lingue prima di pensare alle animazioni Flash e dare ai propri rappresentanti una padronanza dell’inglese che conferisca loro sicurezza e autorevolezza. L’immagine dell’italiota cialtrone che nelle riunioni parla con le mani e al ristorante fa il verso della mucca per dire che vorrebbe mangiare carne non è né simpatica né tantomeno divertente.
Alla stessa maniera, quelli che con un sorrisetto superiore affermano: “io l’inglese lo mastico poco” mi mettono una profonda tristezza. Non c’è veramente nessun motivo di orgoglio nell’essere agli ultimi posti in Europa per la conoscenza delle lingue.

“Accountable” ci sarà lei

“Accountable” ci sarà lei

C’è una parola inglese che in italiano manca e quindi si rivela difficile da tradurre. E’ accountability.

Il Sansoni la traduce come “il rendere conto del proprio operato”, poi azzarda una traduzione di una sola parola “trasparenza” (ma, sorry, questa non mi convince affatto). Poi propone “atteggiamento responsabile”.
Non male come tentativo, ma siamo onesti: si tratta veramente di un compito arduo.

Il Collins online ci prova con “responsabilità”, ma ancora non ci siamo. Troppo generico. Responsabilità vuol anche dire consapevolezza delle conseguenze dei propri comportamenti, ed è questa l’accezione che in Italia piace di più, forse perché più filosofica, meno tagliente e recisa.

Faccio un esempio: se a Pompei crollano la Casa dei Gladiatori e la Casa del Moralista, chi è “accountable”?

Il Ministro dei Beni Culturali non si dimette. Anzi, la prospettiva di dimettersi è vista con un certo fastidio.

Un ministro taglia i nastri tricolori, fa i discorsi ma non “rende conto del proprio operato”, visto che non ha operato un bel niente. Semplice, no? Mica li ha tirati giù il ministro quei muri. L’obbligo morale di rendere conto del proprio operato tende ad evaporare mentre si sale verso l’alto.

Il tristemente noto cialtrone di un comandante che ha bruciato le vite di oltre trenta persone, azzerato l’immagine della sua azienda e affossato quella delle crociere in generale, si proclama “eroe” per aver salvato centinaia di persone.  Poco importa che la somma di quelli che avrebbe “salvato” sia un po’ meno della totalità dei suoi passeggeri, quelle stesse persone che lui ha messo in pericolo di vita con una condotta criminalmente irresponsabile. A differenza della gerarchia ministeriale, qui il comandante scarica verso l’alto le responsabilità, come se al timone non ci fosse stato lui. Si dichiara “sereno” e pronto a “valutare le prove”. Ma le prove non le deve valutare lui. La sua parte l’ha già fatta.

Qui ci vorrebbe una dignitosa ammissione di responsabilità, il gesto eticamente corretto di una persona seria e integra. Ma non facciamoci illusioni, non siamo di fronte a un personaggio in grado di capire (né tantomeno sentire) il bisogno di rendere conto di niente.

E poi c’è poco da valutare, l’hanno capito tutti come è andata. Che la Costa ( e tutti gli altri operatori) condonino la “navigazione turistica” è un fatto abbastanza scontato, ma la nave sugli scogli ce l’ha portata lui e la condotta disdicevole dopo il naufragio è tutta farina del suo sacco.

Ma se i sindaci danno ai meteorologi la colpa del caos prodotto dalla neve, se un intera nazione (la Grecia) pensa di uscire dalla crisi con una raffica di scioperi generali, allora nutro poche speranze che si trovi la traduzione esatta di “accountability” in italiano (o in greco). E confido ancora meno che se ne veda mai traccia nelle culture nazionali.

La parola “accountability” (e tutto quello che sottintende) è destinata a rimanere nel limbo dei termini intraducibili come “fair play”, quelle boiate anglosassoni che ci appaiono tanto oscure e irrilevanti come le regole del cricket.

 

L’incubo

L’incubo

 

Da alcune notti mi perseguita lo stesso incubo: mi ritrovo intrappolato in una nave passeggeri che affonda.

Ho seguito giorno dopo giorno tutta la vicenda della Costa Concordia in TV, sui giornali e sui siti Web italiani ed esteri ed è evidente che continuo a elaborare quelle notizie e quelle immagini anche nel sonno.

In passato ho lavorato su navi passeggeri e viaggiato per migliaia di miglia nautiche in ogni tipo di unità da crociera e traghetto. Durante questi viaggi ho incontrato condizioni meteo di ogni tipo e conosco bene la pratica dell’inchino, quello “serio” però.*

Ho la grande fortuna di non soffrire il mare e riesco a dormire anche quando la cabina sembra fare le montagne russe sulle onde. In più, mi oriento piuttosto bene all’interno delle navi e per questo non ho veramente mai avuto paura di restare intrappolato all’interno in caso di incidente e di affondamento.

Il dramma però è che in questo  incubo ricorrente mi ritrovo nei panni di un passeggero sprovveduto e spaventato, qualcuno che in mare e su una nave è fuori dal suo elemento, una persona che forse non sa nuotare e finisce presto nel panico, un povero diavolo che rimane frastornato quando gli parlano in una lingua che non è la sua.

Una nave da crociera è una torre di Babele, alle istruzioni dell’equipaggio si sovrappongono le voci dei passeggeri in tante lingue diverse. E’ un ambiente poco familiare, un dedalo di scale, porte, corridoi. Specialmente poi se ci sei salito per la prima volta solo due ore prima.

Sei confuso, la nave è inclinata, la gente affolla i corridoi e urla, l’altoparlante parla di un guasto elettrico, intanto vedi passeggeri  che indossano il giubbotto salvagente ma non sai perché. Corri in una direzione per guadagnare l’uscita sul ponte, l’aria libera, il cielo. Qualcuno che corre in senso opposto ti urla qualcosa “No, don’t go there” oppure “No vayas para allá”, ma tu non lo capisci e ormai è il panico che ti fa muovere le gambe e battere il cuore in gola. Hai smesso di funzionare come essere ragionevole e segui i comandi del cervello primordiale.

Apri due porte, percorri due corridoi e improvvisamente ti sei perso. Manca la corrente, sei  solo nel buio più completo, la nave continua a inclinarsi e improvvisamente ti ritrovi intrappolato con l’acqua che sale inesorabile.

Mi sveglio di colpo bagnato di sudore. Il mondo reale mi segnala che tutto va bene: sono in casa, nel mio letto, vedo attraverso le tendine il bagliore delle luci stradali, tutto è verticale e non sento rumori.
Sono salvo, ma non riesco più a riprendere sonno. Il pensiero di tante morti assurde come quella che ho appena sognato mi attanaglia la gola e mi toglie il respiro.

Non è giusto morire così per la bravata di un guappo patetico che ha dimostrato la forza d’animo di un bambino di dieci anni e l’integrità morale di uno scippatore.

* L’inchino è un cambio di rotta deciso dal comandante per viaggiare sottocosta cercando riparo dal vento e dal moto ondoso che questo crea. Tipico dei nostri mari è l’inchino al Leone. Quando soffia il maestrale (vento di Nord-Ovest)  lungo la Valle del Rodano, il Golfo del Leone (che si trova tra Marsiglia e il confine spagnolo) diventa un tratto di mare molto difficile, con condizioni spesso proibitive. Da tempo immemorabile, le navi che attraversano il golfo cercano rifugio a ridosso della costa, dove il mare è meno agitato.

 

Puffi alla deriva

Puffi alla deriva

La nave è una potente metafora delle organizzazioni e anche, per estensione, della cosa pubblica.

Il capitano, prevedibilmente, trova il suo omologo nel CEO aziendale come anche nel capo del governo. Tanto vero che in inglese il termine skipper * è utilizzato per indicare non solo il responsabile della condotta di un’imbarcazione, ma anche il leader di una squadra, di un’organizzazione e anche di un’unità militare, come un plotone o una compagnia.

Momenti cupi quindi per la leadership italiana agli occhi del mondo, con gli esempi deteriori e globalmente pubblicizzati di un recente presidente del consiglio dedito al bunga-bunga, al depistaggio e alle patetiche menzogne mentre il Paese andava a fondo e, in tempi ancora più recenti, di un comandante di nave pavido, elusivo e irresponsabile mentre la sua nave toccava letteralmente il fondale del Mar Tirreno centrale (vedi il precedente post di Gennaio 2012).

Tutto questo continua a fare con spietata chiarezza il giro del mondo sulle prime pagine dei giornali, in televisione e nella blogosfera.

Questa immagine del leader tanto vanesio e amante dei privilegi del ruolo quanto subito pronto a eluderne le responsabilità e gli oneri nel momento del bisogno sembra quasi l’elenco dei tratti richiesti per un “leader all’italiana” dal responsabile del casting di una commedia o di un film stranieri.

L’omino meticolosamente attento alla propria immagine (capelli finti l’uno, riccioli da guaglione l’altro) che si sgonfia e diventa un puffo nell’emergenza è purtroppo uno stereotipo negativo che i fatti continuano crudelmente a riconfermare.

Ricordiamo un attimo le sfacciate bugie raccontate al Paese e al mondo dal tristemente noto presidente del consiglio, ascoltiamo la registrazione telefonica delle abiette scuse inventate dal pessimo comandante per non obbedire agli ordini della capitaneria di porto di Livorno e non rimettere piede a bordo.

Ma non basta. Pensiamo al mancato invio del “mayday”, alla disinformazione verso i passeggeri (“è solo un lieve guasto meccanico”), alla scena descritta dallo stesso comandante mentre parla al telefono con la Guardia Costiera: centinaia di persone ancora in attesa di abbandonare la nave mentre gli ufficiali si sono già imbarcati in una scialuppa di salvataggio e osservano senza fare niente.

Tutto questo trova la sua immagine speculare in una casta di politici pronti a minimizzare, a mentire, a mancare ai loro obblighi istituzionali e a pensare solo al proprio tornaconto.

Questi sono i leader per i quali il mondo ci conosce. C’è poco da stare allegri.

(*) L’origine della parola skipper è comunque olandese.

Si salva chi può

Si salva chi può

Da bambino, la tradizione marinara per cui al comandante è richiesto di affondare con la sua nave mi turbava il sonno. Ero affascinato dal mare e dalle barche, ma quell’aspetto della figura dello skipper mi creava qualche problema.

Sarà stata la stessa cosa, ma in età adulta, per il comandante della Costa Concordia, il quale (a detta di molte fonti) due giorni fa avrebbe abbandonato la nave prima che le operazioni di salvataggio dei suoi passeggeri fossero concluse?
La nave, come è noto, ha urtato una scogliera sommersa al largo dell’Isola del Giglio e si è coricata su un lato a breve distanza da Giglio Porto.
Di affondamento è anche difficile parlare, visto che la nave ancora giace inclinata su un fianco in fondali così bassi da non permetterle di colare a picco nel vero senso del termine. Il numero di vittime (finora indicato in 3) purtroppo non è ancora definitivo, a causa dei numerosi dispersi.

Per quale motivo il comandante avrà deciso di abbandonare la nave, scatenando così ulteriori polemiche sulla sua condotta? Già si parla di un clamoroso errore di navigazione (la nave sarebbe stata diverse miglia fuori rotta) e l’affermazione che gli scogli sommersi non fossero riportati sulle carte nautiche, come avrebbe affermato l’ufficiale, è piuttosto singolare, trattandosi di acque note ai navigatori (e ai cartografi) da tempo immemorabile.

Sui siti Web si parla anche del comandante che sarebbe stato visto bere al bar della nave la sera stessa dell’incidente, ma questa notizia (insignificante per chi abbia un minimo di conoscenza delle crociere) è solo parte di una ridda di informazioni inutili, confuse e scandalistiche messe in pista dal circo mediatico internazionale che si è subito scatenato.
Inevitabile il riferimento al “Titanic” (affondato da quasi un secolo esatto, nell’Aprile 1912) e spuntano anche varie teorie (ancora tutte da dimostrare) sulle cause dell’incidente. L’inglese “Mail Online”, edizione digitale del quotidiano “Daily Mail”, cita alcuni “esperti “ secondo i quali un’”interferenza armonica” potrebbe aver causato un’avaria ai motori e l’impossibilità di governare la nave.

Più semplice, come abbiamo visto, la giustificazione addotta dal comandante, cioè la presenza di scogli non segnalati sulle carte. Non c’è dubbio che il recupero già avvenuto del registratore dei dati di viaggio permetterà di confermare o confutare questa teoria. Basterà infatti confrontarne i dati con le carte nautiche di bordo.

Resta comunque il fatto che il danno, materiale e d’immagine, è irreversibile e incalcolabile. Oltre alla perdita di vite umane, ci sono l’abbandono affrettato della nave da parte del comandante e del primo ufficiale, numerose accuse di una procedura di evacuazione caotica, di scarso addestramento dei marittimi alle emergenze e di scarse o contraddittorie informazioni date ai passeggeri.

Il prodotto crociera è fortemente influenzato da componenti emotive e questa brutta storia del comandante che taglia la corda nel caos generale farà ben più danni di quel basso fondale, segnalato o meno che fosse. Nessuno oggi chiede più al capitano di inabissarsi con il suo vascello, come sembra fece Edward J. Smith un secolo fa con il “Titanic”, ma ci si attenderebbe almeno che il responsabile della nave sia l’ultimo ad abbandonarla, a maggior ragione se un affondamento è impensabile a così pochi metri dalla costa.

Il sospetto di una gestione cialtrona delle responsabilità del comando (errore di rotta, abbandono affrettato della nave,  incapacità di coordinare l’evacuazione, scarso addestramento dell’equipaggio) è piuttosto forte. Ma è ancora troppo presto per un qualsiasi verdetto.