O meglio ancora: individui o pupazzi?

Quante volte vi siete seduti davanti a un interlocutore arroccato dietro la sua scrivania formato portaerei nucleare, costellata di simboli di potere e autorità? E quante volte vi è apparso sullo schermo TV il nostro presidente della repubblica (uno qualunque, non fa differenza) che pronunciava il suo noiosissimo discorso seminascosto da un orrendo tavolo barocco, simbolo involontario ma tristemente azzeccato di un paese appesantito da assurdi formalismi e orpelli ottocenteschi?

Una delle prime cose che si imparano in un corso di Public Speaking è la necessità di stabilire un rapporto personale, un aggancio umano con il pubblico, quello che in inglese si chiama “rapport” (e che in realtà è una parola francese). Uno dei mezzi più immediati per farlo è colmare la distanza che separa il presentatore dal pubblico, sia a livello psicologico che fisico.

Ecco perché l’individuo che ha l’obiettivo di persuadere gli altri si avvicina a loro, gettando un ponte su quel fossato ideale che separa il pubblico dal podio.

Allo stesso modo, l’individuo che non ci tiene a mettersi sullo stesso piano di chi ha davanti corre subito a trincerarsi dietro il set di penne stilografiche (mai usate), il sottomano in pelle fiore (che nessuno è autorizzato a spostare) e il grappolo di foto elegantemente incorniciate che lo ritraggono con una famiglia sorridente e con qualche celebrità.

Un tempo, non c’era foto di manager che non lo ritraesse seduto alla scrivania, con un telefono in mano e la Mont Blanc nell’altra, nell’improbabile atto di firmare un accordo importante e di parlare contemporaneamente con la casa madre (o il presidente di una banca).

Oggi, la foto di repertorio richiede lo smartphone, possibilmente quello con la mela, ma la penna costosa va ancora benissimo.

Ho un ricordo di 25 anni fa al quale sono molto affezionato. Ero appena entrato a far parte della Hertz come direttore vendite per l’Italia e avevo da poco preso possesso del mio ufficio quando entrò un signore che si presentò come il fotografo dell’azienda. Voleva scattarmi un paio di foto che avrebbero poi accompagnato un comunicato stampa contenente la notizia della mia nomina e due righe di biografia.

Il fotografo mi invitò appunto a prendere la posa di cui sopra: telefono all’orecchio  e stilografica in mano per firmare un presunto contratto. “Le foto le facciamo sempre così” mi disse.

Gli risposi che non ci pensavo nemmeno, tirai fuori dal cassetto un adesivo Hertz e lo invitai a seguirmi nel parcheggio. Piazzai l’adesivo sul parabrezza di un’auto e gli dissi che ero pronto per la foto. Nella mia concezione del direttore vendite di un’azienda di autonoleggio, l’ufficio contava poco ma non poteva certo mancare l’auto. Nè io mi volevo identificare con il dirigente da scrivania, l’uomo da direzione generale che si affida solo al telefono e alla corrispondenza per conoscere il mercato e i suoi collaboratori.

Anni dopo, in un’altra azienda (questa volta una mini-multinazionale italiana), il direttore generale mi chiese perché non portavo sempre giacca e cravatta. Gli dissi che l’uniforme da manager la riservavo ai clienti (e nemmeno a tutti), ma se dovevo lavorare in sede e interagire con i miei collaboratori preferivo una tenuta meno formale (parlo di anni in cui il “Marchionne look” non aveva ancora iniziato a fare proseliti).

“Ma lei è un dirigente”, sbottò il DG esasperato.

“Pensandoci bene, le do ragione – gli risposi – come faccio a prendere decisioni se non porto la cravatta?”

Si allontanò scuotendo la testa, ormai rassegnatosi al fatto di avere come collaboratore un individuo e non un pupazzo.