In vena di reminiscenze, ho cercato di ricordare la mia prima traduzione dall’Inglese. Sono certo di esserci andato vicino, ma la certezza non l’avrò mai: credo sia stato attorno al 1965 e si trattava delle parole di una canzone, il tema conduttore del film High Noon (Mezzogiorno di fuoco). Avevo suonato il disco mille volte, portando indietro la puntina all’infinito per riascoltare dei passaggi incomprensibili. Finalmente avevo scritto tutto su un foglio, ma ancora mi sfuggiva il significato di qualche cosa.
Il mio professore di Inglese, tale M.V., uomo del Tavoliere e già stanco del suo mestiere a poco più di trent’anni, guardò il foglietto e disse: “Uagliò…” restituendomelo. Che doccia fredda! Un professore di Inglese che non sapeva l’Inglese. Fu solo il primo.
Dissolvenza cinematografica. Ci ritroviamo nel 1972. Sto traducendo notizie stampa da una newsletter americana del settore trasporti e aviazione civile. In ufficio ho una Olivetti M40 vecchia di 30 anni che fa un baccano da mitragliatrice e nella foga ogni tanto infilo un dito fra due tasti. Questo lavoro mi piace: dalle notizie telegrafiche del notiziario, che è stampato su carta celeste e arriva per posta, devo tirare fuori qualche articoletto di interesse per gli operatori italiani nel settore viaggi e turismo.
Cinque anni dopo, l’Ambasciata del Sud Africa a Roma mi assume come “Journalist/Translator” e devo mettermi la cravatta per andare a lavorare in quell’ambiente ovattato e senza stress che mi attende. Qui farò la conoscenza dell’Inglese parlato dai Sudafricani e delle sue strane vocali.
È il 1981, sono alla Boeing di Seattle con due commissioni parlamentari italiane (Camera e Senato) che si sono regalate questa scampagnata come “missione conoscitiva” sulle collaborazioni internazionali dell’industria aerospaziale italiana. I due funzionari delle commissioni si sono portati le rispettive compagne a spese del contribuente per fare da “interpreti” ai deputati e senatori, ma in realtà le tipe ne sanno veramente poco nonostante le arie che si danno.
Io lavoro per una società che fabbrica aeroplani e la politica non mi interessa. Il mio lavoro (coordinare il viaggio e il ricevimento in Boeing) è praticamente finito. Me ne sto comodamente seduto nell’auditorium della Boeing ad aspettare il discorso di benvenuto del CEO. Le due interpreti lo attendono sul palco in preda al nervosismo. Eccolo che arriva: vestito blu scuro, camicia bianca e cravatta bordeaux a tinta unita.
Non ha con sé nessun foglietto, parlerà a braccio.
“Good evening, ladies and gentlemen…” e si lancia in una frase introduttiva che elogia il ruolo dell’industria aerospaziale italiana come partner della Boeing. Poi si ferma e guarda le due donne, che dovrebbero ora tradurre. Le due però sono bianche come un lenzuolo, non hanno capito niente di questo esordio e il loro silenzio è agghiacciante. Qualche senatore comincia a bisbigliare “Ma che cosa sta succedendo?”. I due funzionari cercano di sparire nelle loro poltroncine come due gnomi da giardino. Il CEO della Boeing è perplesso e si starà chiedendo: “What the hell is going on here?”
Il mio capo mi guarda terrorizzato. “Fai qualcosa” mi dice con voce strozzata. E fu così che, invitate le signore a scendere dal palco, ho iniziato a tradurre il discorso del CEO e la successiva sessione di domande e risposte. Mi dicono che siamo stati lì oltre un’ora ma il tempo per me è volato via.
Alla cena di gala sono stato poi avvicinato da un dirigente dell’Alitalia che era tra il pubblico, il quale mi ha chiesto di incontrarci a fine viaggio perché voleva offrirmi un lavoro nella Direzione Relazioni Esterne.
Non l’avessi mai fatto…