Dove si trova il confine tra un individuo occupatissimo e uno disorganizzato?

Per motivi di lavoro sono in continuo contatto con persone che lavorano in aziende di ogni tipo, a vari livelli di responsabilità e con incarichi lavorativi diversi.

C’è chi è quasi sempre reperibile, chi risponde alle mail o ai messaggi in segreteria telefonica e c’è anche chi non risponde mai. Cellulare sempre spento, interno telefonico che rimbalza al centralino (“mi dispiace ma è in riunione/è fuori posto/è in viaggio”), mail che non hanno effetto, peggio delle letterine a Babbo Natale.

Questione di priorità, mi dirà qualcuno.

Non c’è dubbio che ognuno di noi abbia una sua scala di priorità e oltre trent’anni di vita aziendale mi hanno insegnato che non sempre i primi posti nella scala delle priorità sono assegnati alle questioni strettamente lavorative. Spesso la vetta dell’Olimpo è occupata dal presenzialismo, dal farsi vedere in giro e dal farsi vedere occupati. Quella riunione inutile alla quale è “politico” partecipare, quelle discussioni senza inizio e senza fine con il Capo alle quali non si può sfuggire, quei compiti insignificanti che, opportunamente tralasciati per mesi, improvvisamente diventano urgenti e passano avanti alle cose importanti.

Tutto questo mi è abbastanza chiaro. Mi rimane tuttavia il dubbio sulle capacità di certe persone di organizzarsi e di delegare.

Organizzarsi vuol dire fare un elenco di compiti in ordine di importanza e lasciare il giusto spazio alla gestione delle emergenze. Inutile dire che, se le emergenze sono solo il risultato della propria scarsa organizzazione, c’è qualcosa che non va e quella persona è seduta al posto sbagliato. Manager (al di là dei contenuti mistici che la cultura italiana attribuisce al termine) vuole solo dire gestore. Chi non ha il tempo di gestire (o riconoscere) tutte le cose importanti non è un buon manager, non sta aiutando la sua azienda a raggiungere i risultati prefissati. Vedi il Principio di Peter: “In ogni gerarchia, un dipendente tende a salire fino al proprio livello di incompetenza”.

Delegare significa dare mandato ad altri di gestire alcuni compiti di propria competenza. Chi non sa delegare o ha paura di farlo non è un buon manager. E’ un accentratore o un incapace e spesso è tutti e due.

Se l’incapacità di gestire il proprio carico di lavoro e di attribuire il giusto peso ai vari compiti conduce a una serie di opportunità perdute o a scadenze mancate, ecco subentrare la necessità impellente di insabbiare il tutto sperando che non salti fuori e che nessuno se ne accorga.

I tempi incerti in cui viviamo hanno acuito la sindrome di “impotentia gerendi” (non la cercate sull’enciclopedia medica, il termine l’ho inventato io). Il manager vede cadere le teste in azienda e corre a pararsi le terga con il presenzialismo (“sono dappertutto, ergo sono indispensabile”) o con la paralisi decisionale (“chi non decide, non sbaglia”). In questi momenti di crisi, molti vedono anche aumentare il proprio carico di lavoro e, da una situazione di precario equilibrio, piombano nel panico.

Quando finalmente riuscite a parlarci li sentite farfugliare scuse come “sono occupatissimo”, “sono sommersa dalle cose da fare”, “non so più dove mettere le mani”. Ma se l’argomento per il quale ti sto cercando è un pilastro fondamentale delle tue responsabilità, che cosa stavi facendo? Le stesse persone sono poi quelle che passano venti minuti al telefono a raccontare al coniuge quello che hanno mangiato a pranzo.

A volte mi è capitato, nel corso di viaggi di lavoro, di chiedere di parlare con il direttore dell’albergo in cui soggiornavo.

Quasi inevitabilmente la risposta è stata: “il direttore è occupato”.

Bene, se il direttore di un albergo è troppo occupato per parlare con un ospite (cioè la ragione principale per cui si costruiscono, si aprono e si gestiscono gli alberghi), mi chiedo (a) che cosa stia facendo di più importante e (b) se chi gli ha affidato l’incarico di direttore è a conoscenza di come lo sta gestendo.