La Borsa a Mumbai

Stiamo attraversando a piedi la zona di Mumbai chiamata Fort e ora percorriamo la via Mumbai Samachar diretti alla stazione che un tempo si chiamava Victoria Terminus.

Questa è ora stata ribattezzata col nome dell’eroe locale Chhatrapati Shivaji, una specie di Garibaldi indiano che nella stessa città dà il nome all’aeroporto, al museo principale e alla stazione più monumentale dell’India, avendo rimpiazzato i nomi precedenti dati dagli inglesi.

Quasi di fronte all’edificio della Borsa – un tronco di cono tanto pretenzioso quanto sgraziato – c’è una banca. Entriamo per cambiare qualche Euro. Ci accolgono facce perplesse, nessuna delle quali parla inglese.

Le quarta volta che ripeto “money exchange”, qualcuno mi capisce e ci accompagna all’interno della sala, davanti alla scrivania di una tizia che non sta facendo niente. “Money exchange, please” scandisco.

La tizia mi guarda, sorride con aria imbarazzata e dice: “Sorry, we close at four thirty”.

Indico l’orologio sul muro dietro alla sua scrivania, che indica le 16:20. Lei lo guarda, poi mi ripete: “Sorry, we close at four thirty”.

Gli indiani non amano dire di no. Per cui ti dicono qualcosa di vago e tu devi leggere tra le righe.

Noi ora abbiamo capito e usciamo scuotendo la testa. E non sarà l’ultima volta, negli otto giorni d’India che ci restano.

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Prendiamo un taxi concordando preventivamente un forfait per la mezza giornata. Prima ci facciamo portare al Sanjay Gandhi National Park, un enorme parco di 104 km quadrati all’interno della città e al cui interno si trova la zona archeologica delle Kanheri Caves, una serie di grotte che contengono colonne e statue scolpite nel basalto.

Al ritorno, chiediamo all’autista di portarci nel quartiere di Malad, al centro commerciale InOrbit, uno shopping mall di modello occidentale dove sono già stato in una precedente visita a Mumbai. L’autista rimane interdetto e dice: “Ma quello è un centro commerciale come li avete al vostro paese! Perché non andiamo al Saga? (un grande magazzino indiano dove sicuramente lui porta i clienti in cambio di una percentuale).

“No – gli ripetiamo con la cortese fermezza che abbiamo imparato in India quando la gente fa finta di non capire – vogliamo andare all’InOrbit e ci fermeremo due ore”. L’indiano non riesce a farsene una ragione e insiste: “Ma dopo andiamo al Saga, va bene?”.

“No, non abbiamo tempo. Andiamo solo all’InOrbit”. Il tono è definitivo e l’autista desiste.

Arrivati al centro commerciale, passiamo il solito controllo del metal detector e ci immergiamo in un’atmosfera che ci è familiare. Pavimenti puliti, scale mobili che funzionano, vetrine che puoi guardare senza essere travolto da uno stuolo di imbonitori, procacciatori, truffatori e straccioni. I prezzi sono esposti, i commessi gentili e con un inglese più che decente.

Come si fa a dire a un indiano – senza offenderlo gratuitamente –  che vogliamo prenderci una pausa di due ore dalla sporcizia secolare, dal disordine imperante, dal traffico assurdo, dalla povertà più abbietta, dal rumore costante, dalla onnipresente puzza di urina e dalla disonestà totale di cui è intrisa la sua città?