Mi arriva una mail da Airbnb, il gigante online degli affitti temporanei, per segnalarmi che, a partire dal 1° Novembre, partirà una campagna anti-discriminazione che richiederà l’impegno degli iscritti a “trattare qualsiasi persona, a prescindere dalla razza, la religione, l’origine nazionale, l’etnia, la disabilità, il sesso, l’identità di genere, l’orientamento sessuale o l’età, con rispetto e senza pregiudizi.”
Fin qui, non vedo il problema. Anche senza che un sito di affitti temporanei me lo ricordasse, ho sempre cercato di trattare gli altri con rispetto e senza pregiudizi.
Ma la mail va oltre.
“Come accetto l’impegno?
A partire dal 1° novembre, ti mostreremo l’impegno quando accedi o apri il sito di Airbnb, l’app mobile o del tablet e ti chiederemo automaticamente di accettarlo.
Cosa succede se rifiuto l’impegno?
Se dovessi rifiutare l’impegno, non potrai ospitare o prenotare viaggi attraverso la piattaforma Airbnb, e potrai cancellare il tuo account. Una volta cancellato, i viaggi prenotati verranno annullati. Potrai ancora fare ricerche su Airbnb, ma non potrai prenotare degli alloggi o ospitare dei viaggiatori.”
E qui secondo me l’azienda fondata otto anni fa da Brian Chesky e Joe Gebbia sta uscendo dal seminato. La mossa è un tentativo abbastanza trasparente di crearsi un alibi morale mentre in USA si moltiplicano i casi di presunta discriminazione su Airbnb, quando cioè un padrone di casa si rifiuta di affittarla a qualcuno per via del colore della pelle o altri motivi.
Ho sempre una certa diffidenza quando un’azienda votata ad accrescere i suoi utili si mette a fare del proselitismo, anche se le cause in questione sono condivisibili. Poco più d’un anno fa, Howard Schultz (fondatore della nota catena Starbucks) invitò i suoi baristi ad avviare con i clienti conversazioni sul tema della discriminazione razziale. In altre parole, tu entri da Starbucks a prenderti un Frappuccino e il barista cerca di coinvolgerti in un discorso sull’armonia fra le razze. Il tema è importante ma il momento (e l’interlocutore) è sbagliato. La campagna fallì anche perché creava lunghe file di clienti in attesa mentre il/la barista faceva un mestiere che non era il suo.
Anche la campagna di Airbnb, che è partita in America due mesi prima che da noi, è destinata a fallire. Se non posso decidere a chi affittare la casa per paura di essere accusato di discriminazione, allora userò un canale diverso per pubblicizzarla. Se possedessi una villa al mare con dieci posti letto e dei “millennials” me la chiedessero in affitto per un weekend, non potrei rifiutarmi di dare loro le chiavi per non essere accusato di discriminazione per l’età.
Inoltre, il contratto americano di adesione ad Airbnb contiene una clausola per cui il richiedente si impegna a non partecipare ad un’azione legale collettiva (class action) nei confronti dell’azienda. In altre parole, il gigante degli affitti temporanei da una parte si tutela contro le cause dovute a discriminazione (o altri motivi), dall’altra impegna i suoi iscritti a rispettare un codice morale che serve fondamentalmente a proteggere l’azienda.
Non so quanti iscritti lasceranno Airbnb per via di questa sua nuova politica, né si tratta di dati che l’azienda avrà il minimo interesse a pubblicizzare.
In USA, il termine peggiorativo Social Justice Warrior (SJW) descrive quegli individui che si autoeleggono a paladini di cause sociali (peraltro valide e condivise dai più) per fini di vantaggio personale, vuoi d’immagine vuoi monetario.
Quando delle aziende quotate in borsa, come Airbnb e Starbucks, si svegliano con velleità da SJW, c’è sempre da domandarsi quale sia la vera ragione.