Ho sempre avuto un’attrazione fatale per i mezzi di trasporto e ancora me la porto appresso.
Ricordo che da bambino mettevo in croce i miei perché mi portassero alla stazione ferroviaria, in porto o all’aeroporto. Mi guardavo intorno per ore, gli occhi come videocamere, poi a casa ridisegnavo religiosamente tutto: il locomotore marrone, caldo e impolverato, tozzo e ostile come un mezzo militare o il traghetto dalle mille lampadine accese di cui ridisegnavo il fumo nero fetido che usciva dal fumaiolo come una fila di tante e corsive.
Anni fa ritrovai un vecchio filmino girato da mio padre con la vecchia cinepresa Paillard. Nei fotogrammi bianco e nero saltellanti c’ero io su una terrazza dell’aeroporto di Ciampino mentre alle mie spalle si avvicinava al terminal un quadrimotore della TWA dal muso affusolato e dalla strana coda. Solo molti anni dopo scoprii che si chiamava Super Constellation, o “Connie” per i patiti del volo.
Questa passione per navi, treni e aerei è rimasta sempre viva in me nonostante abbia fatto più viaggi intorno al mondo, migliaia di decolli, atterraggi, attracchi, imbarchi e sbarchi. Che si trattasse di Kowloon o Bergamo, che avessi viaggiato nel 747 della Lufthansa o sul ponte inferiore della Star Line, l’emozione non è mai calata e il fascino del movimento continua ancora a catturarmi: muoversi per non fermarsi, per conoscere, per vedere, per rivedere, gli occhi sempre spalancati come il bimbo curioso di allora. Da qualche parte in casa conservo un chiodo dei binari della Union Pacific e uno della Santa Fe raccolti negli Stati Uniti a fianco di vecchie linee dismesse. Ho imparato a pilotare un aeroplano, ho condotto barche di ogni tipo (anche una nave passeggeri tanti anni fa) ma non mi hanno mai lasciato guidare un treno.
Quante volte ho aperto gli occhi nel cuore della notte (la mia notte o la loro?) in una poltrona d’aeroplano chiedendomi: dove sono? ma specialmente: dove vado? Sale di attesa rumorose, salette VIP dall’aria rarefatta. file accaldate e disordinate a Nuova Delhi, volo cancellato ad Anchorage, atterraggio per emergenza motore a Orlando (peccato: il film era bello ma ci hanno fatti scendere), champagne vietato sulla Pakistan, troppo champagne sulla Lufthansa, panino sulla Easyjet, gallette e facce stantie sull’Alitalia.
Viaggiare tanto è come scaricare il contachilometri dell’automobile: perdi fino a un anno per ogni viaggio che fai. Parti che ne hai 50 e torni che ne hai 49 e sei più curioso di prima. Vivi in una dimensione parallela fatta di corse di decollo e permanenze a 12 km di altezza e a meno 50° C di temperatura, ibernato per ore e scongelato quando arrivi.
“Signori buongiorno, siamo atterrati a Mumbai, la temperatura è di 38 gradi”. Bene, ora si va a lavorare e a girare tutto il giorno come una dinamo per guadagnarci finalmente una bella birra Kingfisher imperlata di condensa alle 18:00. Ma è vita questa? Sissignore, questa è vita!