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Parlare chiaro non è uno skill che le aziende considerano importante. Anzi, è vero il contrario.

Che si tratti di una multinazionale anglosassone (che adotta una sua versione dell’inglese da imparare come un’altra lingua estera) o di una PMI italiana, dove si ricorre (spesso a sproposito) a termini stranieri sentiti al Master, la tendenza è quella di complicare o mimetizzare i concetti per renderli meno banali o per smussarne gli angoli.

Gli eufemismi aziendali sono comunque un patrimonio quasi esclusivo dell’inglese, questa valanga linguistica che conta oggi oltre un milione di vocaboli e si aggiorna costantemente grazie anche ai neologismi di business.

Già da parecchio tempo, al fine di perpetuare il mito “we are one big, happy family”, le aziende hanno mimetizzato la parola licenziamenti trasformandola in downsizing, smartsizing, rightsizing. Quest’ultima farebbe supporre che, prima dei tagli occupazionali, vigesse il wrongsizing, una situazione patologica a livello di headcount. Ma di questa, essendo un fatto negativo, non si parla.

Altra splendida invenzione è il resource rebalancing, un’attività che di fatto taglia i posti di lavoro e solo di rado li “riequilibra” senza variarne il totale. In rari casi, può verificarsi che siano stati eliminati tre posti da venditore e creati tre incarichi da Vice-Direttore. Alla faccia del rebalancing

Lateral move è lo spostamento laterale che spesso fa da aperitivo alla sparizione di un personaggio dal libro paga. Nonostante questa ultima opportunità che gli viene offerta, il malcapitato sarà prima o poi convocato ai piani alti (il cosiddetto “Come to Jesus meeting“) e si sentirà dire “You’re not the right fit“.

Una simpatica variante di questa espressione mi venne rivolta venti anni fa, al momento del mio distacco da una nota multinazionale americana. Il capo del personale era un certo Roy G., uno scozzese che il pomeriggio non fissava riunioni perché impegnato in un “J-meeting”, una riunione con Jack (Daniels), Jim (Beam) e Johnnie (Walker). Roy mi convocò nel suo ufficio una mattina ed esordì dicendo: “You’re not happy here“.  A poco servì dirgli che ero più che felice, anzi esultante. La decisione era già stata presa e all’azienda sembrava più umano vendermela in quella maniera, come se mi fosse generosamente concesso di andarmene: “we’ll have to let you go“. Per me non cambiava nulla, dovevo riempire la tradizionale scatola di cartone e andarmene a casa, ma loro si sentivano più in pace con se stessi.

Ma gli eufemismi trionfano anche in altre situazioni aziendali e non solo nei dismissal.

Una parola di moda è empowerment, il tentativo di far credere ai dipendenti di bassa lega che anch’essi hanno la facoltà di prendere decisioni.

Altra parola chiave è l’aggettivo challenging. Può funzionare in maniera positiva (we’ll give you a new, more challenging responsibility) o coronare una serie di insuccessi (your tasks proved too challenging for you).

Guesstimate è una vecchia conoscenza che nasce dalla fusione di guess ed estimate. Il Merriam-Webster lo definisce “an estimate usually made without adequate information“. La sua bellezza è che, se siete una figura lanciata e rampante in azienda, nessuno vi riterrà responsabile di aver clamorosamente sbagliato quella stima. Se invece la vostra posizione è già traballante, un guesstimate tragicamente fuori bersaglio sarà l’epitaffio sulla vostra lapide aziendale.

Ma niente paura, anche per gli ex-manager che cercano di rientrare nel mondo del lavoro gli eufemismi non mancano:  has-been, retread (come i pneumatici ricoperti), dead wood (niente male come eufemismo). E anche se avete negoziato una buonuscita generosa (il cosiddetto golden parachute), non potete sfuggire: sarete sempre archiviati nella categoria corporate roadkill, come i quadrupedi morti ai lati delle strade.

Una volta lasciata la “grande famiglia felice”, si diventa facilmente oggetto di sarcasmo. In compenso, quando ci si trova outside looking in si riesce meglio a comprendere l’assurdità di una lingua finta, che vorrebbe esorcizzare e camuffare le situazioni negative ma nulla può fare per modificarle.

È una prassi che risale alle antiche religioni politeistiche e animistiche, in cui i nomi di alcune divinità, di certi animali o dei defunti non si potevano pronunciare. Ecco quindi comparire gli eufemismi, termini chiari a ognuno che permettevano di capire di chi e che cosa si stesse parlando senza aver per questo pronunciato quelle parole immenzionabili.

Che oggi, nelle aziende del Terzo Millennio, si ricorra ancora all’uso di eufemismi per indorare la pillola è una situazione veramente grottesca, ma tant’è.

Il manager che riesce a costruire una frase complessa fatta esclusivamente di cliché triti e trasparenti è uno che dimostra capacità relazionali e comunicative in linea con la cultura aziendale. Chi ancora preferisce dire le cose come stanno è invece un Gulliver intellettuale in un mondo di nani, una persona scomoda e una vistosa incongruenza in un panorama umanamente avvilente.

Nota: il libro Corporate Bullshit for Dummies non esiste. Ringraziamo l’editore Wiley per l’abuso del caratteristico look della sua collana.