L’anno scorso, all’età di 77 anni, è morto lo scrittore americano Robert B. Parker.

Dal 1973 alla data della sua scomparsa aveva scritto oltre 60 libri; di questi ne ho letti più della metà e sui rimanenti sto lavorando assiduamente.

Si tratta di storie avvincenti condite da dialoghi tanto minimalisti quanto autentici, ricchi di slang e di ironia. Parker era un erede spirituale di Raymond Chandler, il creatore di Philip Marlowe (“Il Grande Sonno”), e negli anni ’80 gli fu infatti chiesto di completare un libro di Chandler rimasto incompiuto alla morte dell’autore nel 1959.

I personaggi di Parker sono ormai famosi: tra di loro il detective Spenser di Boston (il cui nome di battesimo non è mai stato rivelato) e il poliziotto Jesse Stone che, dopo una carriera chiacchierata in California, diventa il capo della polizia di Paradise, un’immaginaria cittadina sulla costa del New England a nord di Boston.

Tra i tanti personaggi disegnati dalla prosa essenziale di Parker ce ne sono altri due che sono apparsi in quattro storie ambientate nel selvaggio West: si tratta di Virgil Cole ed Everett Hitch, due uomini di legge, gente di poche parole e di principi morali monolitici e piuttosto ridotti all’osso.

Siamo alla fine dell’800, l’America sta crescendo e picchettando ogni metro quadro di terreno ancora libero. Ci sono miniere, ferrovie, saloon e bordelli, Repubblicani e Democratici, baroni allevatori e piccoli proprietari, ex-ufficiali della guerra di secessione, indiani insofferenti delle riserve e mezzosangue che non disdegnano le conquiste della cultura occidentale. La miscela è infiammabile e il whisky non aiuta.

Virgil ed Everett sono figli del loro tempo, pellacce stagionate dal sole, dal vento e dalla neve, coscienze granitiche che non hanno difficoltà a decidere tra il bianco e il nero, tra chi merita un avvertimento amichevole e chi invece si prende un colpo di .45 in petto.

Su questo sfondo è proiettato il ferreo legame che esiste tra i due protagonisti, un’amicizia discreta dove la comunicazione si affida a mezze frasi e il tempo che essi passano lavorando o cavalcando insieme è più intermezzato da lunghi silenzi che da conversazioni complesse.

Tutti i protagonisti di Parker sono in qualche modo “flawed heroes”, eroi imperfetti. Siamo ben lontani dai personaggi tutti d’un pezzo dei film di Henry Fonda, James Stewart e Gary Cooper.

Ognuno di loro, non ultimi Virgil Cole ed Everett Hitch, ha un lato debole, un difetto che lo rende tanto vulnerabile quanto più credibile come essere umano.

Solo pochi dei libri di Parker sono stati tradotti in italiano e posso immaginare la fatica del traduttore nel  rendere i dialoghi che hanno reso l’autore famoso in USA. Non avendo letto l’edizione italiana dei suoi libri non ho idea del risultato, ma temo che, diluita inevitabilmente la potenza dei dialoghi, quello che resta sono solo delle storie avvincenti. Quanto ai suoi romanzi western, non mi risulta che siano mai stati tradotti. Ricordo invece che la trasposizione cinematografica di uno di essi (Appaloosa) ha dato origine a un bel film del 2009 interpretato e diretto da Ed Harris (nella parte di Virgil Cole) e co-interpretato da Viggo Mortensen (nella parte di Everett Hitch).

Ho appena finito di leggere “Blue-Eyed Devil”, l’ultimo libro della quadrilogia ambientata nel West, e l’ho richiuso con una certa tristezza: con Robert Parker se ne sono andati anche Virgil ed Everett, due giganti di personaggi nati dalla sensibilità e dalla fantasia dell’autore e morti silenziosamente con lui.