Mag 20, 2009 | The Blog
Chi vuole entrare a Istanbul deve accettare il fatto che il traffico della metropoli turca cominci già a cinquanta chilometri di distanza, da qualunque direzione si provenga.
E chi lascia Istanbul, come abbiamo fatto noi diretti alla frontiera greca, deve essere pronto a sopportare cinquanta chilometri di traffico intenso prima di esserne definitivamente uscito.
Dopotutto, un agglomerato di 13 milioni di abitanti garantisce la presenza di un’ora di punta che dura 24 ore al giorno e copre centinaia di chilometri quadrati.
Poi, lasciata la città, il nulla. Dopo aver fatto un interminabile slalom tra rampe, raccordi e svincoli e dopo quasi un’ora su un’autostrada urbana a tre corsie, ci ritroviamo improvvisamente a viaggiare paralleli al mare in un paesaggio monotono, costellato di squallidi villaggi, moderne stazioni di servizio e bandiere con mezzaluna e stella che sventolano dappertutto.
E’ la Tracia, regione che porta lo stesso storico nome anche una volta passati in Grecia.
Si naviga con la bussola, visto che in terra turca manca del tutto la segnaletica che indichi la strada per la nazione confinante e tutt’altro che amica.
Solo arrivati a poca distanza dalla frontiera appaiono dei cartelli misteriosi che recano il nome “Yunanistan”.
Ma dove stiamo andando? La domanda viene spontanea.
Niente paura, siamo sulla strada giusta. I turchi la Grecia la chiamano così.
La frontiera dal lato turco ha un aspetto formidabile, é una fortezza circondata da filo spinato e sulla quale sventolano enormi bandiere.
I controlli, anche in uscita, sono piuttosto severi e l’area doganale é enorme.
Poi finalmente si arriva al ponte sul fiume Evros, che marca il confine. Sul lato turco ci sono due garitte con un paio di soldati armati e dall’espressione impenetrabile.
Anche sulla sponda greca ci sono due militari armati, ma hanno l’aria annoiata di chi fa la guardia al nulla.
Uno di loro vede arrivare il nostro piccolo convoglio di quattro moto e ci saluta con la mano. Siamo ritornati in Europa.
Mag 15, 2009 | The Blog
Siamo a Sofia da qualche ora, dopo 800 km di strade di ogni tipo che ci hanno portati qui da Zagabria.
Ieri sera eravamo a passeggio nella Tkalkica Ulica della capitale croata, gustando l’atmosfera un po’ bohemienne di questa suggestiva strada piena zeppa di bei locali e gremita di gente giovane e allegra.
Oggi invece abbiamo sperimentato un’uscita serale nella capitale bulgara, un’esperienza sconfortante. Città sgangherata, traffico demente, tassisti scostanti, camerieri incapaci. Insomma, un paese dell’ex blocco sovietico che non riesce ancora a voltare pagina.
Peggio per loro. Domani noi ripartiamo e ci dirigiamo su Istanbul.
La strada percorsa oggi ci ha regalato alti e bassi. La noia dell’autostrada croata semideserta da Zagabria al confine serbo, l’attraversamento di Belgrado e il proseguimento fino a Niš (cercando senza successo di restare nel limite di velocità serbo di 120 kmh), seguiti da un centinaio di chilometri di statale piena di TIR fino al confine bulgaro sotto la minaccia di un gigantesco temporale, che finalmente ci ha spruzzati per cinque minuti a mezz’ora di strada da Sofia. Poi l’ingresso in questa città caotica, cialtrona e polverosa.
Domani, dicevo, lasciamo la Bulgaria diretti a Istanbul. Ho promesso ai miei compagni di viaggio di portarli a mangiare pesce in un ristorante del quartiere Sultanahmet.
Spero solo di riuscire a ritrovarlo, perché ormai ci hanno fatto la bocca e, se li deludo, corro il rischio di un ammutinamento…
Apr 16, 2009 | The Blog
Alba con smog a Shanghai
Grazie all’ufficio Italiano per il Commercio Estero di Shanghai, ho un elenco di appuntamenti con potenziali clienti situati a sud della metropoli. Lo stesso ICE mi organizza un’auto con autista e interprete, che sono stati già utilizzati con successo in passato da ditte italiane e che provvederò a pagare direttamente.
Il mio interprete è un giovane universitario dall’improbabile nome di Calvin (come molti Cinesi, il suo nome occidentale se l’è scelto lui) e con il quale girerò per una settimana incontrando aziende piccole e grandi. Senza di lui (ma anche senza un autista esperto), la mia missione già naufragherebbe appena arrivati in periferia.
Partiamo all’alba nella luce arancione dello smog e arriviamo a Tiantai nella provincia di Zhejiang nel primo pomeriggio con la nostra Buick Regal costruita a Shanghai dalla General Motors. L’auto è nera e porta ancora al lato del parabrezza un cartello dall’aria ufficiale con tanto di falce e martello e che sicuramente risale a qualche precedente servizio, ma in Cina avere un’aria di ufficialità non guasta mai.
Non abbiamo prenotato un albergo; cercare su Internet un alloggio in località minori della Cina è un gioco di pazienza che finisce sempre male: siti caotici, mancanza di foto, nomi di fantasia o incomprensibili, nessuna catena alberghiera conosciuta. La soluzione migliore è arrivare a destinazione e guardarsi intorno. Grazie all’autista e all’interprete, l’obiettivo è raggiunto in soli cinque minuti dall’arrivo in città. L’albergo è una costruzione di medie dimensioni con un atrio enorme e completamente vuoto. In fondo c’è un banco del ricevimento verso il quale Calvin ed io ci dirigiamo. Nonostante l’albergo vanti quattro stelle, non si accettano carte di credito ma solo Renminbi* (RMB) contanti. La cifra è comunque modesta e dopo un frusciante trasferimento di banconote entriamo in possesso delle chiavi.
Ma in albergo non c’è un ristorante e la fame ci spinge all’esterno una volta depositate le valigie.
La cittadina è mezza addormentata e la via centrale offre ben poco in materia di ristoranti. Anche i negozi sono pochi e squallidi.
Dopo un paio di “vasche” senza esito sulla strada principale, ci troviamo davanti un fast-food della catena KFC. E’ già tardi, lo stomaco protesta e decidiamo di entrare.
Per chi come me apprezza la cucina cinese, ritrovarsi davanti un secchiello di pollo fritto con la ricetta segreta del Colonnello Sanders di Louisville, Kentucky, e un litro di Pepsi invece di un tè verde o una birra Tsing Tao è l’equivalente di un brutto sogno. Ma la fame ha la meglio sui miei principi e procediamo a demolire la montagna di pollo fritto che ci sta davanti.
Nel corso dei miei giri in Cina, scopro poi che KFC riscuote un successo clamoroso nel Paese di Mezzo (traduzione di Zhonghuá, che è appunto come i Cinesi chiamano la loro terra). E’ il ristorante occidentale più diffuso e apre nuovi punti vendita al ritmo pazzesco di 250 all’anno. Il numero totale di KFC in Cina supera ampiamente i 2000 ristoranti, con un rapporto di 2 a 1 rispetto ai McDonalds, che pure sembrano onnipresenti.
Quella stessa sera, incontriamo un potenziale cliente che ci ha invitato a cena. Ci passa a prelevare in albergo e ci porta in una sontuosa sala privata di un ristorante del centro cittadino. Lì, a sorpresa, ci sono già sette suoi amici seduti a tavola e l’aria è densa di fumo.
Sono l’unico occidentale del gruppo e il buon Calvin si prodiga in una serie di presentazioni che hanno l’effetto di lasciare tutti piuttosto confusi. Non importa, ognuno sorride contento, il cibo arriva in quantità industriali e sul tavolo appaiono grappoli di birre dalla marca sconosciuta.
Ormai i Cinesi parlano e scherzano tra loro e si danno molto da fare con le innumerevoli portate. Calvin ed io facciamo altrettanto. Ogni tanto qualcuno mi invita a gesti a mangiare ancora di questo o di quello e io non mi faccio pregare: i piatti sono ottimi, sebbene di molti non mi sia chiaro il contenuto. Ringrazio sorridendo e mi servo. Immancabilmente qualcun’altro mi riempie il bicchiere di birra appena il livello cala sotto la metà. Non so quanta ne avrò bevuta in oltre due ore ma fortunatamente si tratta di birra a bassa gradazione e ne risento appena gli effetti. Calvin, con la sua corporatura esile, mi sembra invece in difficoltà e fatica a tenere una posizione verticale.
Ad una certa ora, ci scusiamo con il nostro ospite, salutiamo l’allegra compagnia e ce ne torniamo a piedi in albergo. L’aria è fredda e asciutta e ci rimette rapidamente in sesto mentre risaliamo la strada principale. Mi viene in mente che non so nemmeno il nome dell’albergo, ma finché il buon Calvin è sveglio non c’è problema.
(*) Il Renminbi, anche noto come Yuan, è la moneta utilizzata in tutta la Cina, ad eccezione di Hong Kong e Macao.
Mar 17, 2009 | The Blog
I due manager indiani mi passano a prendere in albergo con una Tata Indica e mi invitano a sedermi dietro per stare più comodo. Siamo tutti e tre sull’1,80 e di costituzione sana e robusta. La vetturetta è ora al completo e viaggia in assetto ribassato con le sospensioni in sciopero bianco.
Da Mumbai siamo diretti a Pune o, come avrebbero detto gli Inglesi, da Bombay a Poona. In realtà, la nostra meta precisa si chiama Ranjangaon, sempre all’interno dello stato del Maharastra di cui Mumbai è capitale. La distanza è meno di 200 km ma ci vorranno 4 ore.
Andiamo a visitare la nuova fabbrica in costruzione alla quale la mia azienda è cordialmente invitata a unirsi, creando una joint venture italo-indiana per la produzione di resine. La mia è una missione esplorativa in vista di questa possibile cooperazione. I futuri partner indiani hanno ceduto il vecchio stabilimento nel sobborgo Kandivali di Mumbai e ne stanno realizzando uno in questa nuova zona industriale dove il governo offre forti incentivi all’insediamento di fabbriche.
Mentre percorriamo una Expressway sul lato Est di Mumbai, mi viene indicata una zona della città fatta di povere case fatiscenti addossate l’una all’altra. Il mio interlocutore, Anil J., mi racconta che un anno fa c’è stata qui una disastrosa inondazione che ha sommerso diversi quartieri.
“Ci sono state molte vittime?” gli chiedo. “No, solo 150 per fortuna” è la sua risposta.
Tutto è relativo: in una città di 15 milioni di abitanti, 150 morti non spaventano nessuno.
Arriviamo finalmente a destinazione e mi estraggo faticosamente dalla Indica con la schiena a pezzi. I lavori dello stabilimento sono abbastanza avanzati, il cemento è stato gettato e una processione di donne vestite in sari multicolori porta sul capo i blocchetti di calcestruzzo che ne costituiranno le pareti. Altre trasportano recipienti carichi di graniglie che un vecchio camion ha appena scaricato. Anche loro tengono il carico in equilibrio sul capo con delle movenze antiche e un incedere elegante che dona alla loro fatica una dignità sacerdotale.
Operai e operaie vivono in alcune baracche di stuoia e lamiera ondulata a fianco del cantiere e vi resteranno stabilmente fino a lavori ultimati.
Anil mi mostra l’ala della fabbrica che potrebbe espandersi per accogliere la produzione congiunta di cui stiamo parlando. Gli aspetti vincenti di questa collaborazione mi sembrano evidenti e la mia relazione sul viaggio sarà decisamente positiva. Anil aggiunge anche: “Quando il tuo Amministratore Delegato verrà in India a vedere la fabbrica, il nostro Chief Executive lo porterà qui con il suo elicottero.”
Mentre mi inerpico sul sedile smollato della Indica, penso al viaggio di ritorno che ci aspetta e l’idea di atterrare davanti al mio hotel dopo solo mezz’ora di volo è una fantasia inebriante.
NB: La collaborazione con gli amici Indiani non è mai partita. L’Amministratore Delegato italiano non era per niente entusiasta di recarsi in India. “Chissà come sono gli alberghi. Ce li avranno i 5 Stelle?” mi ha chiesto. Nemmeno le foto dell’Hyatt Regency di Mumbai l’hanno convinto a fare il viaggio.Se fossi stato io il titolare dell’azienda, avrei dormito anche in tenda pur di assicurare il futuro dell’attività di famiglia, ma evidentemente l’AD era preoccupato di non trovare rubinetteria d’oro nella sua stanza d’hotel. Nei suoi viaggi a Hong Kong, per esempio, se non trovava posto al leggendario Mandarin Oriental modificava le sue date pur di alloggiare lì. E non è che a Hong Kong manchino altri alberghi di superlusso…
Feb 14, 2009 | The Blog
Sono appena rientrato da Palermo dove ho trascorso 4 giorni per sbrigare alcune faccende.
Anche se Febbraio non è proprio il mese ideale per fare il turista in Sicilia, trovare temperature attorno ai 20 gradi non è un fatto eccezionale e prima della partenza già mi rallegravo all’idea di farmi qualche passeggiata al sole.
Bè, questa volta non è andata come speravo. Tra temperature gelide, vento e grandine il tempo non poteva essere peggiore e perfino le alture intorno alla città erano spolverate di neve.
Per il resto, niente sorprese. Palermo resta una città di struggente bellezza e di profondo abbandono. Il traffico è caotico ma risponde a regole invisibili che sembrano funzionare.
Le regole scritte, invece, vengono spesso ignorate perché ritenute, a torto o a ragione, non applicabili alla realtà locale. Le infrastrutture sono fatiscenti e i servizi carenti, ma la gente trova il modo di adattarsi, di far fronte alle lacune e di non stressarsi più di tanto.
È un equilibrio anarcoide fondato sulla sfiducia (meritata) nei confronti delle amministrazioni locali in decenni di malgoverno.
Ma ci sono delle costanti positive in Sicilia che non mancano mai di stupirmi: la cordialità delle persone che non conosci e la generosità di quelle che conosci. Ecco perché ci torno sempre volentieri e con qualunque tempo.
Feb 9, 2009 | The Blog
Vieques è poco più di un sasso che spunta dal mare a Est di Portorico e, insieme alla vicina Culebra, appartiene a questo Stato “volontariamente associato” agli USA, una situazione che sembra scontentare tutti, sia i sostenitori che gli oppositori dell’adesione completa e definitiva agli Stati Uniti d’America.
Insieme a Culebra e altri scogli adiacenti, Vieques fa parte delle Isole Vergini Spagnole e buona parte del suo territorio fu acquistata della marina americana durante la Seconda Guerra Mondiale. Decaduta l’importanza strategica dell’isola quale base navale, la US Navy continuò a utilizzare Vieques come poligono di tiro, nonostante le proteste degli abitanti.
Negli anni, la marina ridusse gradualmente la sua presenza sull’isola e foraggiò generosamente la popolazione per compensarla del disturbo, fino al suo ritiro completo nel 2003.
Alle manifestazioni di protesta per sfrattare gli Americani, seguirono puntuali le rivendicazioni legate alla perdita dei posti di lavoro di tutti quegli abitanti di Vieques che erano impiegati alla base. Il risultato fu che sull’isola piovvero ancora altri milioni di dollari federali.
Oggi a Vieques sono pochi a lavorare veramente e quei pochi non brillano per la voglia di fare.
L’isola è quanto di più “autentico” si possa trovare nei Caraibi. Non ci sono grandi alberghi e mancano anche quelli piccoli. L’aeroporto a Isabel Segunda è una striscia asfaltata di poche centinaia di metri e vi atterrano solo piccoli aerei a elica.
Lo sviluppo turistico di Vieques è ancora a livello embrionale e chi va alla ricerca di spiaggette deserte e zero vita notturna farà bene ad affrettarsi. Una rapida ricerca su Internet permette di identificare le opportunità di soggiorno disponibili sull’isola.
Per raggiungere Vieques, si vola su Portorico e si prosegue con un piccolo bimotore a elica della Vieques Air Link o altre mini compagnie aeree locali. Come alternativa all’aereo, è possibile proseguire in taxi dall’aeroporto di Portorico fino al porto di Fajardo, sulla costa orientale dell’isola, per prendere un traghetto che raggiungerà Isabel Segunda in circa un’ora.
All’arrivo occorre noleggiare un’auto. Ci sono diverse ditte di autonoleggio che offrono una ristretta gamma di veicoli, tra cui anche 4×4, tutti rigorosamente malconci. In compenso, i prezzi sono molto abbordabili. Senza un veicolo non potrete visitare Vieques, esplorarne tutte le spiagge e lasciarvi contaminare da quella voglia di far niente che nella popolazione locale ha raggiunto livelli epidemici.
Ma se cercate un’isola caraibica dove sia ancora possibile trascorrere una giornata in spiaggia senza vedere un’anima e trovarsi a dividere la striscia di sabbia con dei cavallini bradi che sbucano dalla macchia per brucare le foglie, non conosco un altro posto come questo.