Gen 31, 2016 | The Blog
Mancano pochi giorni al primo appuntamento per la nomina dei candidati alla presidenza americana. Il primo di Febbraio si tengono i cosiddetti Iowa Caucus, una serie di riunioni tra elettori per scegliere il candidato del loro partito da mandare alla Convention nazionale prima dell’estate. Questa dell’Iowa è una tradizione che risale ai tempi anteriori alla rivoluzione americana, ma il meccanismo è simile a quello delle “primarie”, che i restanti 49 stati hanno adottato. Il verdetto dell’Iowa è importante perché è il primo vero test per i candidati e molto meno per la capacità del piccolo stato del Midwest (poco più di 3 milioni di abitanti) di rappresentare un campione significativo dell’elettorato americano.
In Iowa tra una manciata di ore vedremo chi dei primi classificati nei due partiti, Repubblicani e Democratici, avrà la meglio. Nello schieramento dei Dems, la “frontrunner” è Hillary Clinton, avanti di un’incollatura al socialista Bernie Sanders. Clinton porta con sé un pesante bagaglio legato alle sue discutibili attività mentre era Segretario di Stato e al suo ruolo di First Lady ai tempi della presidenza del marito, le cui trasgressioni sessuali hanno fatto storia. Sanders, invece, è un idealista onesto e ha per questo catturato l’attenzione e il supporto degli elettori più giovani, ma è improbabile che questo si riconfermi su scala nazionale.
Il fronte repubblicano vede in testa Donald Trump, la cui strategia populista e urlata ha conquistato molti elettori e sorpreso tutti, giornalisti e avversari compresi. Alle sue calcagna c’è il senatore texano Ted Cruz, seguito a distanza dall’altro senatore Marco Rubio e dall’ex-neurochirurgo Ben Carson, l’unico candidato nero in questa corsa alla presidenza. Trump ha un talento naturale per attrarre su di sé l’attenzione e ha rivoluzionato l’approccio repubblicano alla campagna elettorale. Forte nella prevaricazione ma molto meno ferrato nei programmi, The Donald potrebbe sbaragliare tutti i suoi avversari partendo dall’Iowa oppure rivelarsi un fuoco di paglia il giorno che gli elettori americani si siano rinsaviti.
Sarà un bello spettacolo. Io ho preparato il popcorn e le birre sono già in frigo.
Aggiornamento del 2/2/2016
I Caucus dell’Iowa hanno premiato la logorante copertura a tappeto delle 99 contee dello stato fatta dal repubblicano Ted Cruz nelle scorse settimane. Cruz vince su Trump mentre Marco Rubio è terzo a brevissima distanza. Quella di Cruz è la vittoria dei “grass roots”, della gente comune, e un segnale all’establishment repubblicano. Secondo posto dolceamaro per Trump, che aveva boicottato l’ultimo dibattito repubblicano in Iowa per una polemica con gli organizzatori, e ora deve domandarsi a chi sia giovata la sua presa di posizione. Viene anche spontaneo ricordare un tweet di due anni fa dello stesso Trump (v. sotto) e chiedersi se The Donald la pensa ancora così.
In campo democratico, la Clinton vince per una manciata di voti su Bernie Sanders (che chiede un nuovo conteggio) e si proclama vincitrice con un discorso pieno di astio e di vaghe promesse. Millimetrica e amara vittoria per una che si sentiva invincibile e non temeva il vecchio idealista Sanders, La prossima consultazione è in New Hampshire tra una settimana e Sanders avrà la possibilità di sconfiggere la Clinton con margine ben più ampio.
Dic 21, 2015 | The Blog
Non amo i telegiornali e amo ancora di meno i giornalisti che vi si annidano, ecco perché le notizie le vado a cercare sui siti Web delle agenzie di stampa, italiane e non.
L’ANSA, sedicente “prima agenzia italiana d’informazione”, si rivela puntualmente una delusione. Nonostante essa vanti il motto Affidabilità, Completezza e Indipendenza, in realtà non ha niente di tutto questo. I reportage sono scritti con i piedi (pieni di errori di sintassi e ortografia a livello scuole elementari), certe notizie non sono nemmeno riportate (però compaiono sui siti stranieri) o molto spesso si rivelano opinioni di parte e non notizie.
Prendo ad esempio la “notizia” odierna (21 Dicembre 2015) del terzo dibattito tra i candidati democratici alla presidenza USA E’ un video di 52 secondi che esordisce con “Hillary Clinton senza rivali” e prosegue con “si conferma la frontrunner” “saldamente in testa ai sondaggi” e altre espressioni positive nei confronti dell’ex-segretario di stato, senza menzionare affatto gli scandali (passati e presenti) che ne compromettono l’affidabilità quale potenziale 45° presidente USA. Fin qui, la “notizia” è perfettamente allineata con la posizione dei Democratici americani, per i quali le scorrettezze, le continue menzogne e le violazioni della legge da parte della Clinton vanno passate sotto silenzio. Chi cercava qui pura informazione ha trovato invece una versione di parte. Il video prosegue attribuendo a Hillary un giudizio sul principale candidato repubblicano Donald Trump “è un maestro in buffonate e bigottismo” per i suoi “commenti razzisti e di estrema destra” (quest’ultima frase è un contributo del giornalista ANSA e non della Clinton).
Non intervengo in difesa di Trump, che non apprezzo affatto, ma in difesa della lingua inglese. Passi la traduzione dell’originale buffoonery con buffonate, che mi pare termine troppo vago e leggero, ma la ragione per cui lo scribacchino dell’ANSA andrebbe fustigato, oltre al chiaro e prevedibile schieramento pro-Clinton, è aver tradotto bigotism con bigottismo.
E’ il classico “falso amico”, una parola inglese praticamente identica a una italiana, ma che ha un significato ben diverso. Bigotto, per il vocabolario Treccani, si dice “di persona che mostra zelo esagerato più nelle pratiche esterne che nello spirito della religione, osservando con ostentazione e pignoleria tutte le regole del culto.”
Bigotism, in inglese, è l’intolleranza per le opinioni, le credenze e le convinzioni altrui.
Non c’è dubbio che le due parole, quella inglese e quella italiana, abbiano origini comuni, ma (come nel classico caso di egregio/egregious) hanno oggi significati ben diversi. Da chi si occupa di notizie dal mondo anglofono ci si aspetterebbe una conoscenza dell’inglese di livello superiore alla scuola media, ma in mancanza di questa basterebbe una modesta dose di intelligenza. Che c’entra il bigottismo con le sparate di Trump?
Non basta. In meno di un minuto, il testo ANSA utilizza le parole inglesi: first lady, frontrunner, tycoon. Se da una parte la traduzione italiana di first lady può risultare goffa, non vedo la necessità di utilizzare frontrunner e tycoon se non per fare sfoggio del proprio inglese, per quanto mediocre esso si riveli di fatto. Cara ANSA, quanti tra i tuoi lettori conoscono il significato di quelle due parole?
E poi, una sottigliezza. Per l’ANSA, la Clinton è semplicemente Hillary, come dire una di famiglia. Il rivale repubblicano è invece Donald Trump, o semplicemente Trump.
Lo stesso trattamento amichevole l’ANSA Motori lo riserva a Lapo Elkann, che chiama affettuosamente Lapo nel descriverne un presunto colpo di genio, quello di aver camuffato due Fiat 500 da droidi R2-D2 di Guerre Stellari. Qualche giorno prima, l’ANSA aveva parlato di “Lapo” per un’altra gran trovata, quella di far realizzare dalla Pirelli pneumatici con spalle in vari colori. Che gran mente quel Lapo; e pensare che qualcuno lo ritiene un ragazzino viziato con più soldi che cervello. E ancora: “Lapo a tutto campo“, una sbrodolata enfatica e smielata a firma di un certo Damiano Bolognini Cobianchi, che annuncia—pensate—un libro di Lapo Elkann sulla Fiat 500. Non è chiaro se si tratterà di un libro da colorare o di qualcosa di più convenzionale, nel qual caso almeno si sarà creato un posto di lavoro a progetto, quello del “ghost-writer” che dovrà realizzarlo in nome e per conto del rampollo Fiat. Cobianchi sviolina Elkann come “amatissimo dalla gente”, senza però dire di che gente stiamo parlando. Alla fine, che ci voleva a prendere giù tre nomi e citarli?
Si riconferma ancora una volta la grande attenzione dell’ANSA nei confronti di tutto quanto è collegato alla Fiat, pubblicandone come notizia i comunicati stampa trionfalistici e autoreferenzianti. Dopotutto, quale giornalista è in grado di resistere alle lusinghe della Fiat, come per esempio darti un’auto in comodato gratuito in cambio di un occhio di riguardo. Tanto che male c’è?
Alla faccia dell’indipendenza dell’agenzia di stampa, che in fatto di “marchette” non si rivela più integra delle più spudorate testate automobilistiche.
Nov 22, 2015 | The Blog
Poche ore prima della tragedia di Parigi, Barack Hussein Obama aveva decantato nella trasmissione Good Morning America il suo successo nell’aver “contenuto” l’ISIS.
Lo stesso tono trionfalistico l’aveva usato agli inizi dell’anno dichiarando che lo Yemen esemplificava il successo della politica antiterrorismo della sua amministrazione. Nel giro di poche settimane dall’annuncio, il presidente yemenita fuggiva dalla capitale, gli Stati Uniti chiudevano l’ambasciata a Sana’a mentre il paese cadeva nella guerra civile.
Lo scorso anno, mentre i notiziari segnalavano il dilagare dell’ISIS in Medio Oriente, Obama aveva deriso lo Stato Islamico definendolo “una squadretta di dilettanti”.
Torniamo ora ai fatti più recenti. Il 20 Novembre 2015, il Segretario di Stato americano John Kerry tenta goffamente in una conferenza stampa di rinforzare la fiducia nella strategia anti-ISIS di Obama citando come esempio la guerra ad Al Qaeda. Quest’ultima organizzazione, dice Kerry, è stata “neutralizzata”. Quasi contemporaneamente, però, un gruppo affiliato ad Al Qaida in Mali attacca l’Hotel Radisson Blue di Bamako uccidendo 21 persone.
Dobbiamo ora decidere se l’amministrazione Obama è un parafulmine che attira sciagure non appena dichiara i suoi successi o è una manica di imbecilli incompetenti che giocano con i fragili equilibri mondiali.
Io ho già formato una mia opinione ma non voglio influenzare quella di nessuno. Diciamo solo che non credo al malocchio (né ai parafulmini).
PS: Se è vero che le grandi menti pensano allo stesso modo, vale anche il contrario. Cioè, anche gli imbecilli affermano le stesse cose. Sia Obama che il Principe Carlo d’Inghilterra sostengono che all’origine della guerra civile in Siria ci siano i mutamenti climatici. Se il colorito di Carlo, un idiota di dimensioni cosmiche, lascia sospettare generosi consumi di superalcolici, il catalizzatore di Obama devono invece essere le canne.
Ott 25, 2015 | The Blog
Ogni giorno i titoli dei giornali ci riportano le notizie di ulteriori atrocità perpetrate in nome della religione ed è ormai inevitabile associare le parole fondamentalismo o terrorismo all’aggettivo islamico.
Ogni volta che, prima dell’imbarco di un volo, siamo costretti ad aprire il bagaglio a mano per farlo ispezionare, a toglierci scarpe e cinture prima di passare scalzi attraverso un metal detector, forse non ricordiamo nemmeno più che queste misure di sicurezza sono state rese necessarie in seguito agli atti terroristici commessi da attentatori islamici.
Certo, l’Islam non è l’unica religione nel cui nome sono stati perpetrati atti di violenza e intolleranza.
L’incapace che ancora risiede nella Casa Bianca ci ha ricordato nel Febbraio scorso che anche il Cristianesimo si è macchiato del sangue di innumerevoli vittime. Il suo riferimento alle Crociate esemplifica ancora una volta l’arroganza e la pericolosa incompetenza di uno dei peggiori presidenti nella storia. Il paragone tra il terrorismo e le atrocità di oggi con eventi storici che risalgono a oltre 800 anni fa è forzato e disonesto. A nessuno verrebbe in mente di incolpare i romani di oggi dello sterminio degli Etruschi avvenuto duemila anni fa.
Il mio lavoro mi ha portato per anni in nazioni caratterizzate da tensioni etniche e religiose e in paesi fortemente improntati all’islamismo. Tuttavia, solo di rado ho avuto occasione di sperimentare atteggiamenti aggressivi nei miei confronti quale europeo e quindi “infedele”. Premesso questo, resta comunque il fatto che, ogni volta che sono diretto in un paese arabo o quando il mio aereo di linea sorvola nazioni come l’Iran o l’Iraq, il pensiero va inevitabilmente alla questione sicurezza e a quella dell’intolleranza religiosa. E’ innegabile che il problema esista ed è stupido (o perfino criminale) minimizzarlo o negarlo come fanno Obama e altri come lui.
Nella terza settimana di Ottobre, ho lavorato per 4 giorni a Dubai, dove ero stato per l’ultima volta otto anni fa. Devo dire prima di tutto che l’impatto è stato incredibile: in otto anni il paese è cresciuto in maniera impressionante e mostra una vitalità straordinaria, essendo uscito dalla morsa della crisi globale ormai due anni fa ed essendosi impegnato in una serie di ulteriori, grandiosi progetti, non ultimo fra questi l’EXPO 2020.
Come in passato, anche questa volta mi ha colpito a Dubai la convivenza di più religioni, lingue e usanze in un paese dichiaratamente arabo. In questo emirato ricco di contrasti e, diciamolo pure, di sfarzo esagerato per gli standard europei, le varie convinzioni religiose sembrano coesistere intatte e con pari dignità.
A parte il caleidoscopio surreale degli shopping mall, dove la donna araba interamente velata guarda le vetrine a fianco di un’altra araba in abiti occidentali e tacchi alti, la normale e pacifica convivenza di usi e costumi è un fatto quotidiano. L’arabo che indossa la tipica kandoura immacolata non si scompone mentre al tavolo a fianco si siedono quattro americane in shorts; nel traffico intenso della Sheikh Zayed Road (v. foto), il commerciante indiano al volante di un gigantesco SUV bianco si contende pochi metri di asfalto con l’espatriato nordeuropeo al volante di una Porsche Panamera, il tutto in maniera naturale e non aggressiva.
Nei seminari di formazione che ho tenuto a Dubai, i partecipanti appartenevano ad almeno 7 diverse nazionalità e quattro religioni: cattolici, copti, induisti e musulmani. In particolare, sebbene fossero presenti due egiziani e un giordano, gli unici due islamici osservanti si sono rivelati essere indiani. All’inizio del seminario i due mi hanno chiesto se, per consentire loro di pregare all’orario prescritto, si potesse spostare di mezz’ora la pausa caffè pomeridiana.
L’abbiamo fatto senza problemi, ma mi ha colpito il modo del tutto sereno in cui la richiesta è stata fatta. Come tutti sappiamo, non sempre le esigenze degli islamici osservanti vengono presentate in maniera equilibrata (e questo in paesi in cui sono loro ad essere “ospiti”). Quando anni fa in un campo profughi siciliano è stato servito ai musulmani il mangiare durante il giorno—ed era il loro Ramadan—c’è stata una rivolta in cui hanno dato fuoco ai loro alloggi.
Qual è quindi l’esempio di Dubai?
Viene spontaneo concludere che, in presenza di un governo che garantisce la libertà religiosa e di un’economia in costante ascesa (PIL in crescita media del 5,25% dal 2012 ad oggi), l’integralismo non rientra tra le priorità dei residenti di Dubai, mentre il raggiungimento del benessere sì. Gli Emirati non sono certo un paradiso in terra, ma rappresentano tuttavia un compromesso funzionante tra un governo autocratico islamico e l’esigenza di assicurare all’oltre 80% di popolazione non locale la possibilità di vivere tranquillamente il loro stile di vita senza chiudersi in un “compound” come avviene in Arabia Saudita.
Set 2, 2015 | The Blog
Nella fase finale della sua seconda presidenza, Obama sta lavorando duro per ricavarsi una nicchia nei libri di storia.
In questi giorni, in occasione di un viaggio in Alaska, ha ufficialmente ribattezzato Denali il Monte McKinley (la vetta più alta del continente americano). Di fatto, il nome Denali è da sempre stato utilizzato, a fianco o in sostituzione di quello ufficiale, per indicare quella splendida vetta.
Ma il problema non è il nome. Per legge, è il Congresso degli Stati Uniti l’organo responsabile delle variazioni alla toponomastica. Il presidente si è arrogato un altro diritto che non gli compete a tutto beneficio della teatralità del gesto e in piena coerenza con il suo modus operandi autocratico e autoreferenziale.
La cosa ha fatto indignare alcuni e sorridere molti. E’ anche partita la corsa a indovinare quali nomi geografici tradizionali saranno i prossimi a cadere sotto i colpi del presidente.
Io mi permetto di suggerire di ribattezzare il Grand Canyon chiamandolo Grand Kenyan, in onore appunto del primo (e molto probabilmente ultimo) presidente americano di origini keniote. A differenza di Denali, non esiste infatti un nome indigeno cui fare riferimento (se non l’antica descrizione fatta dagli indiani Paiute: “la montagna che giace”) e quindi tanto vale assecondare la sconfinata vanità di Obama.
Sempre in occasione del viaggio in Alaska, il presidente ha annunciato che parteciperà a una puntata speciale di un reality show sui ghiacciai sotto la guida del survivalista Bear Grylls.
Anche qui i commenti negativi non sono mancati, a partire da una petizione che invitava Obama a bere la propria urina, una tecnica insegnata da Grylls. Ma senza cadere nel grottesco, molti si sono chiesti se queste “sparate” non siano dannose per l’immagine di un presidente che non è più popolare come una volta.
A mio avviso, Obama sta soffrendo un po’ sotto l’offensiva delle immagini macho che Putin ama far girare. Vladimir che cavalca a torso nudo, nuota in un lago siberiano, si immerge in un mini-batiscafo, spara a una balena da un gommone, si esibisce in mosse di judo e altre pagliacciate classiche dei dittatori di modesta statura.
Obama deve aver deciso di contrattaccare.
Negli ultimi mesi della sua presidenza credo che assisteremo ad altre gesta degne di essere tramandate, messe ormai da parte le promesse di HOPE e CHANGE che hanno per due volte portato Obama alla Casa Bianca.
Intanto il Paese non è mai stato così spaccato da tensioni razziali, diviso profondamente sull’accordo con l’Iran, confuso dalla continua immunità accordata a Hillary Clinton e spaventato per l’instabilità delle borse.
C’è da dire che anche l’arci-rivale Putin, nonostante lo stato preoccupante dell’economia russa, non ha smesso un attimo di fare l’uomo forte e di provocare l’occidente.