Il dibattito che si trascina da anni sulle differenze tra leader e manager può tranquillamente proseguire senza il mio irrilevante contributo. Specialmente quando a rimarcare la profonda differenza tra un manager e un leader è un pezzo da novanta come Abraham Zaleznik (Professore di Leadership alla Harvard Business School), che già nel 1977 sosteneva che da un manager ci si aspettano tenacia, intelligenza, capacità analitiche, tolleranza e intraprendenza. Per contro, Zaleznik diceva che per diventare leader occorrano genio, creatività e capacità di ispirare.
Anni dopo, John Kotter riprendeva la tesi delle profonde differenze tra manager e leader (alla ricerca della stabilità i primi e votati al cambiamento i secondi) ma affermava anche che in un’azienda ci fosse bisogno di entrambi. Nel 1989 un certo Warren Bennis aggiungeva perfino che “il manager è una copia, il leader è un originale”.
Nel frattempo, un’altra autorità in materia, Daniel Goleman, sosteneva che per fare di un manager un grande leader il segreto risiedesse nell’”intelligenza emotiva”.
Ripercorrendo la mia storia professionale, devo ammettere di non aver quasi mai avuto capi in grado di indossare l’abito di leader. Molti, anzi, si rivelarono perfino alquanto scadenti come manager.
La nostra cultura e la nostra storia non hanno veramente prodotto esempi degni di nota ed è questo uno dei motivi per cui il titolo “The Italian School of Management” è ancora disponibile, se a qualcuno venisse in mente di scrivere il libro e trovasse abbastanza esempi per riempirlo.
Quelli che la nostra stampa ha sempre spacciato per “grandi manager” nazionali sono personaggi nati e cresciuti nelle aziende storiche italiane o pittoreschi imprenditori, tutti esempi fulgidi di egocentrismo, paternalismo, nepotismo e statalismo. Ho conosciuto persone che hanno lavorato a stretto contatto con alcuni di questi fenomeni e il quadro che ne hanno dipinto è tutt’altro che edificante. Non si tratta di manager da prendere come esempio né tantomeno leader carismatici.
L’unico capo con il potenziale umano per essere un leader con cui ho avuto la fortuna di lavorare è ormai andato in pensione da diversi anni. Creativo, spontaneo, onesto e trasparente era anche un ottimo manager (se vogliamo veramente sottolineare la differenza tra i due ruoli). Purtroppo l’azienda in cui lavoravamo non aveva spazio né per lui né per me e, in momenti differenti, prendemmo la via dell’uscita per fare dell’altro.
In tempi recenti, ho letto un interessante articolo scritto da un professore inglese, David Lease dell’Università di Norwich. Scrive Lease: “in tutte le discussioni sulla differenza tra manager e leader traspira la convinzione che i leader siano per loro natura superiori ai manager. Il leader viene visto come galvanizzante, innovatore ed efficace, mentre il manager è ritratto come una specie di sgobbone scialbo e timoroso di rischiare, capace solo di crescere in termini di incompetenza. Queste attuali concettualizzazioni della leadership si rivelano disorientanti quando la leadership viene analizzata in maniera contrapposta al management. Ma i leader sono anche manager? E i manager fanno anche i leader? La leadership fa parte del management o si tratta di qualcosa di diverso? La leadership ha sostituito il management, oppure il concetto di “buon management” è stato semplicemente riconfezionato come “leadership?”
Credo che l’approccio di Lease sia molto sensato. Nel corso della mia carriera ho sempre cercato di essere un buon manager e forse ci sono anche riuscito per qualche momento. L’idea di essere un leader non mi è mai passata per la testa. Ciò nonostante, alcuni dei miei ex-collaboratori con i quali sono rimasto in contatto mi hanno, bontà loro, definito “il migliore capo” incontrato nella loro carriera.
Questo, oltre a riempirmi di orgoglio smisurato, mi fa piuttosto credere che essere un manager ed essere un leader non siano che due punti di un continuum: nel corso della nostra attività ci collochiamo su di esso in una posizione diversa volta per volta (a seconda delle circostanze, dell’incarico o del tipo di squadra in cui operiamo) ma per ognuno di noi è aperta la possibilità di vivere un magico attimo (o magari anche un anno o due) da leader.