Engrish (o Chinglish) è quella forma di inglese nonsense utilizzato in Cina per rendere più trendy prodotti di largo consumo (sia nella pubblicità che nel nome stesso del prodotto), oppure quelle folli traduzioni che si trovano nei menu dei ristoranti o anche nei cartelli e negli avvisi al pubblico.
Ci sono blog e perfino libri interi dedicati all’Engrish e chi viaggi in Cina (o comunque in Estremo Oriente) per qualche giorno ne vedrà una quantità impressionante di esempi.
Ma a volte non occorre andare così lontano per vedere a quali forme di tortura è stata sottoposta la lingua di Shakespeare. In Italia, dove la conoscenza dell’inglese è ai livelli più bassi d’Europa, l’uso scellerato dell’inglese è abbastanza comune.
Traduttori improvvisati si lanciano in improbabili conversioni di testi italiani in inglese, con il risultato di creare testi difficilmente comprensibili sia agli anglofoni che agli italiani che provino a capirne il senso.
Basta leggere le istruzioni e le avvertenze nei mezzi di trasporto o cliccare sulla bandierina inglese nei siti Web per accedere alla versione “inglese” del sito. Vi troverete circondati da “falsi amici” e da costruzioni sintattiche tipicamente italiane trasportate con la forza in inglese.
L’inglese non ama la costruzione passiva, l’italiano ci sguazza. Alcuni verbi sono transitivi in inglese ma in italiano no (e viceversa), ma il traduttore non si ferma davanti a questi dettagli e ti costruisce dei capolavori che suonano male a tutti tranne che a lui/lei.
Tanta è le scelleratezza che nemmeno si pensa a far leggere la traduzione a un conoscente anglofono, just in case. Per carità, non se ne parla neppure. Chi è uscito dall’università italiana con una laurea in lingue non si abbassa a tale umiliazione. Il “pezzo di carta” sancisce l’infallibilità del portatore.
Ma la disinvoltura con la quale si fa uso dell’inglese non si ferma qui. Giorni fa ho visto in un cantiere della futura Expo 2015 una di quelle toilette portatili che si utilizzano appunto in siti di lavoro. La marca apposta sui lati della casetta in plastica mi lasciava perplesso: Miss Cup.
La traduzione letterale non mi aiutava a capirne il senso e solo dopo aver pronunciato ad alta voce quello che leggevo ho capito il raffinato gioco di parole. Mis cap, ovvero Mi scappa.
Vorrei stringere la mano a chi ha avuto l’idea. Una trovata eccezionale per limitare l’interesse nel prodotto al territorio italiano. Chi potrebbe capire la battutona al di fuori della penisola? Forse i ticinesi.
L’azienda è brianzola e sul suo sito Web spiccano le foto di una serie di persone (dalla ragazza in tacchi alti all’operaio edile) che stanno per farsela addosso. Divertente, ma serve a vendere?
Se lavoro come responsabile acquisti, quali criteri mi guidano nella scelta di una toilette portatile? Il sito sbarazzino e il marchio ingleseggiante? Non credo.
La scelta del marchio sembra quasi un “inside joke” dei titolari dell’azienda. Ridono di meno i commerciali che devono presentarsi telefonicamente per prendere appuntamenti con i potenziali clienti. “Buongiorno, sono Evaristo Carugati della Miss Cup”. Che risate!
Ma c’è ancora di peggio. Anche qui non si tratta veramente di una questione linguistica. In un negozio di Belgrado che vende biancheria intima, spicca in vetrina un paio di mutandine con la scritta: Love is in the hair.
Sembra più un pun sul titolo della vecchia canzone “Love is in the air” di John Paul Young (1977) che un errore di spelling.
Il risultato finale è comunque devastante.
Se la foto risulta mossa è perché ridevo troppo…