Route66_sign

New Mexico, USA, fine di Maggio. Il tracciato della vecchia Route 66 attraversa un tratto desertico dalla terra rossa che segue il letto di un fiume in secca e si estende all’infinito nell’aria tremolante per il calore. Il fondo stradale è in pessime condizioni, ma è quello autentico della leggendaria strada americana: The Mother Road, da Chicago a Los Angeles in 2.400 miglia. A poca distanza, carica di traffico, corre la Interstate 40 che qui l’ha ormai soppiantata da decenni e già da quasi un’ora non ho diviso la strada con nessuno.

Alla mia destra vedo i resti di un vecchio ponte della ferrovia, molti dei piloni in legno sono crollati e quelli ancora in piedi sembrano un gruppo di ubriachi. Mi tornano alla mente mille scene di film western, con il treno a vapore che arriva sferragliando sul singolo binario mentre dai piloni del ponte penzolano le micce sfrigolanti della dinamite.

Mentre mi fermo a scattare un paio di foto, all’orizzonte appare una nuvola di polvere. In pochi minuti arriva un vecchio pick-up con due uomini a bordo. Si fermano a fianco della mia Ford noleggiata e il guidatore apre il finestrino. È un uomo sulla quarantina con un berretto da baseball e strizza gli occhi contro il sole. “Problemi alla macchina?” mi chiede.

“No – gli rispondo – sto facendo un po’ di foto.”

“Sei anche tu uno di quei matti che si fanno tutta la Old 66 fino a LA per il solo gusto di farla?”

Route66 NM diner

Confesso la mia colpa e racconto loro di essere addirittura venuto apposta dall’Europa.  Si guardano ridendo e scuotono la testa. “Senti, se ti va di bere qualcosa di fresco, seguici fino al ranch qui dietro la curva.”

Accetto volentieri. Sebbene sia ormai abituato all’ospitalità immediata di molti Americani, questa volta rimango stupito. L’Europeo in me si chiede anzi se sia cosa saggia seguirli “dietro la curva” carico di macchine fotografiche e dollari in contante.

Ma siamo già arrivati. Il ranch è una casetta squadrata come la disegnerebbe un bambino; a fianco sorge un capannone con un paio di trattori, niente a che vedere con i pittoreschi fienili in legno che ancora si trovano dappertutto in America. C’è un pozzo artesiano, qualche bidone di olio, due macchine parcheggiate e il resto è sabbia e collinette rocciose che si spingono fino all’orizzonte.

In questo mare di colore ocra, vedo lontano una macchia verde, come un’oasi nel deserto.

“È un vecchio pozzo che usava la US Cavalry per abbeverare i cavalli”, mi legge nel pensiero l’amico del pick-up mentre mi porge una lattina di birra imperlata di condensa. “Qui non c’è un gran che ma se ti fermi, domani possiamo fare un giro a cavallo.”

Lo ringrazio, ma spiego che devo continuare fino a Flagstaff in Arizona. “OK, come vuoi”, mi dice. Gli Americani non insistono quasi mai, visto che loro stessi raramente dicono “no grazie” solo per fare complimenti.

L’amico sparisce nel ranch e ritorna dopo un minuto con un six-pack di birre Coors Extra Gold gelate. “Mettile al fresco” mi dice. Deve aver visto il cooler di plastica che ho comprato al Wal-Mart per pochi dollari. Se attraversi l’America senza averne uno, devi essere per forza uno straniero alla sua prima visita.

Come back anytime, y’hear?” mi salutano lui e il suo amico, mentre salgo in macchina.

Dopo pochi secondi il ranch sparisce nella nuvola di polvere che mi lascio dietro. Ora sono di nuovo sulla Route 66 con la mia Ford bianca velata di polvere rossa mentre, armato di una Reflex e 6 birre gelate, inseguo un obiettivo che si sposta con l’orizzonte. Mai come questa volta la mia destinazione è la strada stessa.