Il Culto della Banalità

Il Culto della Banalità

In Italia la traduzione dei titoli di film e libri stranieri è fin troppo spesso affidata a dei cerebrolesi.

Anche le cosiddette “tagline” di marchi famosi—quei sintetici slogan che accompagnano i brand, come NIKEJust do it e che in Italia sono stati misteriosamente ribattezzati “payoff”—sono affidate a qualche demente per essere tradotte.

Qualche esempio per illustrare le mie affermazioni.

E’ appena uscito in Italia Camino Island”, un libro dello scrittore americano John Grisham. L’isola in questione è un luogo di fantasia che l’autore ha ambientato in Florida e la storia parte dal furto dei manoscritti originali dello scrittore Francis Scott Fitzgerald, l’autore (non immaginario) de “Il Grande Gatsby”.

L’editore italiano ha deciso di cambiare il titolo del libro da “Camino Island” in ”Il Caso Fitzgerald”, una minitruffa ai danni dei fedeli lettori di Grisham, che si aspettavano un altro dei suoi celebri legal thriller, cosa che questo libro non è affatto.

Un altro esempio tra centinaia. Un classico libro sulle tecniche negoziali scritto nel 1981 dagli americani Roger Fisher e William Ury si chiamava “Getting to Yes”, che l’editore italiano ha annacquato in “L’Arte del Negoziato”.

 Scarsa fantasia o stupidaggine pura?

“Getting to Yes” ha venduto milioni di copie in tutto il mondo. Difficile pensare invece che un titolo tanto banale come “L’Arte del Negoziato” possa aver attratto più di cento acquirenti.

Anche i film ricevono da decenni la loro quota di traduzioni melense. Uno dei casi più celebri è il musical “The Sound of Music”, che qualche stordito tradusse con “Tutti Insieme Appassionatamente”. Oppure il classico “Stagecoach” di John Ford, che da noi fu chiamato “Ombre Rosse.”

Per chiudere, parliamo delle “tagline” in pubblicità.

Cinque anni fa, qui sul blog, accennavo ai mentecatti della Gillette che tradussero (e ancora traducono) “The best a man can get” con “Il meglio di un uomo.”

Ripensandoci, vi immaginate che levate di scudi se qualcuno pubblicizzasse una ceretta con lo slogan “Il meglio di una donna”?

Un paese piccolo piccolo

Un paese piccolo piccolo

Nike e altri giganti del suo calibro non rinunciano all’uso dell’inglese nelle loro tagline anche in mercati non anglofoni (per una serie di ottimi motivi nessuno tradurrebbe “Just do it” con “Fallo!” per il mercato italiano). Opel va addirittura oltre utilizzando il tedesco con “Wir leben Autos” pur sapendo che pochi in Italia o in altri Paesi ne capiscono il significato. Ma all’uso della lingua tedesca si associano serietà e precisione e, in ogni caso, qui c’è un’immagine già solida di suo.

La lingua locale rappresenta ormai un paletto e una limitazione all’immagine globale di certi marchi. McDonald’s si identifica dovunque con “I’m lovin’ it”, Nokia con “Connecting people”, mentre invece per anni Gillette ha tradotto il suo slogan globale “The Best a Man Can Get” (che fa anche rima con il marchio) con un banale “Il Meglio di un Uomo”, che non solo non fa rima ma anche traduce male l’originale, immagino però con la virtuosa intenzione di meglio comunicare con il consumatore italiano. (Se tuttavia un rasoio o, per estensione, la pelle liscia sono il meglio di un uomo, il problema è piuttosto serio).

Oggi è diventato pressoché obbligatorio che lo slogan sia espresso in inglese se si vuole proiettare l’immagine di una ditta di successo, anche se questa non ha progetti di internazionalizzazione o è solo la tabaccheria all’angolo.

 Anche il negozio tradizionale rifà l’insegna e ci sbatte un qualche nome inglese. Perché i tempi cambiano…

Un ottico a Milano, per non cedere del tutto all’anglofilia, ha installato a tutto campo l’insegna Occhial House, uno strano ibrido e un monumento al pressappochismo nazionale. Casa dell’Occhiale, che magari era stato per due generazioni il nome originale dell’esercizio, oggi sa troppo di antico, puzza di tempi pre-Internet come la parola emporio.

Ciò nonostante, nell’Italietta che ama vedersi proiettata internazionalmente, permangono delle idiozie provinciali che evidentemente nessuno ha il coraggio di spazzare via.

Chi non ricorda i dentifrici Colgate e Close-up pronunciati all’italiana per non turbare i sonni del consumatore locale? Close-up non si trova più, ma Colgate ancora va forte, sempre pronunciato Col-ga-te. Coraggiosi pionieri sono invece stati Brooklyn, la gomma del ponte, e Whirlpool, quella degli elettrodomestici, per aver scosso il letargo italico con nomi ben più difficili da pronunciare. Ma non è successo niente, il sole ha continuato a sorgere e le vendite non sono crollate. Ciò avrebbe gettato nel panico i vertici commerciali delle aziende, spingendoli a ribattezzare i marchi Broccolino e Virpol.

(Il caso della Sega, gigante dei videogiochi che da sempre è chiamata Siga, sarà forse da esaminare a parte.)

L’altra sera, guardando la TV, mi sono sbellicato dal ridere. Sul canale Fox Crime (pronunciato all’inglese, eccetto per la “R” arrotata all’italiana) è apparsa la scritta: TOUCH (pronunciato tacc)  sponsored by (sponserd bai) : CLEAR (dove invece il dittongo EA è pronunciato a bocca aperta come nel nome Lea).

La Signora Cesira, icona della massaia italica di bassa scolarità, si vanta di fare multitasking, fa shopping al factory outlet e carica la spesa nella sua “C-Crosser” alimentata a Diesel, ma evidentemente per i dirigenti marketing di Unilever Italia non è ancora pronta a sentir chiamare Cliar il suo sciampo antiforfora e per quelli della Johnson & Johnson  gli assorbenti si vendono meglio se li pronunci Ca-re-fré-e.

Per un Paese in cui la percentuale degli abitanti in grado di tenere una conversazione, pur elementare, in inglese non tocca il 30% (contro il 50% della Slovenia), la strada da fare è ancora lunga e queste incrostazioni di provincialismo idiota non aiutano.