skyscrapers

Quando si parla di comunicazione multiculturale si pensa subito a incontri di lavoro in Estremo Oriente oppure a trattative di affari in Nord America. Ma non c’è bisogno di andare così lontano per incontrare usi e costumi molto diversi, specialmente a livello di cultura aziendale.

Senza spingersi quindi fino agli alveari di Shenzhen o Mumbai, basta fare un giro a Nord di Milano o nel napoletano per incontrare imprenditori nostrani con un modo tutto loro di vedere la realtà.

“Sono trent’anni che facciamo così, perché cambiare?” è una frase ricorrente. “Io non credo ai computer e tutte queste diavolerie che fanno solo perdere tempo ai dipendenti” è un’altra.

In questa visione fortemente geocentrica della loro ditta, i clienti e i concorrenti “non capiscono niente” e la visione strategica di questi imprenditori è un dogma immutabile. Se poi il mondo va in un’altra direzione, sarà il mondo ad aver capito male.

La formazione dei dipendenti è un lusso che non ci si può permettere (“Devono lavorare, altro che corso di lingua!”) anche se ci sarebbe la possibilità di accedervi gratuitamente. Il dipendente in missione “va a divertirsi”, per cui i sabati e le domeniche lavorati ce li rimette di suo. Il cliente nordeuropeo è per definizione cretino e quindi si prova ogni volta a fregarlo.

La casistica è pressoché infinita; in tanti anni di esperienza come manager e come consulente ho visto parecchie situazioni grottesche.

Il tutto si complica con il passaggio generazionale: un bel giorno le redini dell’azienda vanno dal fondatore (ormai ottuagenario e spesso sclerato) ai figli. Molti di questi hanno fatto una gavetta aziendale all’acqua di rose, sotto l’occhio tollerante e permissivo del padre, gavetta della quale vanno fieri conservandone un ricordo tanto romantico quanto esagerato. (Presi da una parte, i collaboratori gettano un po’ di luce sulla presunta scuola dura dei figli d’arte: “Ma se non c’era mai! E quando c’era, entrava in ditta alle 11:00 e alle 15:00 se n’era già andato.”)

Alcuni di questi capitani d’azienda della seconda generazione parlano Inglese e hanno studiato all’estero senza particolari problemi di urgenza, altri hanno invece acquisito il loro know how per un raro processo osmotico che vede esperienza e cognizioni trasmettersi da padre a figlio, anche quando il primo è ancora a “tirare la lima” in fabbrica, mentre il figlio fa il velista nel Golfo del Tigullio.

Endemica, sia nei padri che nei figli, la diffidenza nei confronti del consulente. L’unico “estraneo” degno di fiducia è il commercialista, il consigliori che tutto ha visto e tutto sa.

Molte aziende in Italia sono in mano a figure di questo tipo. Molte altre, per fortuna, sono gestite da padri o figli con idee grandi e un ego di dimensioni normali.

Non sempre però si può scegliere con chi trattare e un’efficace comunicazione multiculturale può portare buoni risultati, anche  restando all’interno dei confini nazionali.